Oltre a star dietro a una macchina da presa scrive pure,
Paolo Sorrentino. Con gli stessi limiti che gli si attribuiscono da regista: un
certo squilibrio nel dosare le parole, a sovraccaricare con esuberanza riflessiva. E un certo eccesso nel gusto del pathos,
dell’emotività –trattenuta, sviscerata o manifesta che sia. È vero, son limiti
che mi sembrano condivisibili, con tutto l’amore che provo per i suoi lavori.
Ma chissenfrega della perfezione, quando ci si trova di fronte a una riflessione
di tale onestà e intelligenza umana. Guardarlo al cinema ti astrae dal mondo (“È
per questo che non vado mai al cinema. Quando lo spettacolo finisce, fuori c’è
la caducità della normalità. E questa escalation brutale, violenta, mi fa
soffrire come un povero uomo tra i poveri uomini. Mi fa sentire fuori dalla
vita alla quale vorrei appartenere per sempre. Quella del film. Fuori, è tutto
uno stupro”), leggerlo è un tuffo nella profondità che la percezione
dell’animo umano può raggiungere di fronte alla vita, alla natura e alla
coscienza. Eccolo qui un pezzo di Sorrentino, un passaggio tra i più rappresentativi di quel presupposto de La
grande bellezza che è stato Hanno tutti ragione sotto forma di
libro:
“... E tutti lì a tormentarsi su queste quattro lettere
che toglie loro il respiro: figa, figa, figa, figa, figa.
Non dormono tutta la notte, l’appetito se ne va, si
bombardano di schifezze da tutte le parti per avere la cosiddetta erezione (che
brutta parola, erezione!) per introdurre, introdurre, introdurre.
Questo l’obiettivo, lo scopo, la ragione di vita. Cosa
c’è attorno? Niente. Non sentite odore di morte? La morte non è la scomparsa
del desiderio, quella alla mia età si fa irreversibile e fisiologica. Che cazzo
ci vuoi fare? Macché! La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così
come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il
desiderio è stato sempre perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e
variopinta del linguaggio. Vanno a braccetto , come le commarelle.
Ma non è sempre stato così. Sessantasei anni fa, mia
moglie si è voltata e mi ha guardato come non mi aveva mai guardato. Mi ha
guardato come il sentiero s’illumina d’incanto, mi ha guardato come il bambino
divertito dagli schizzi d’acqua. Così mi ha guardato ed è stata la rivoluzione
di me stesso. Non sto dicendo che mi sono innamorato. Sto dicendo che mi sono
eccitato l’anima per una torsione del collo. Vero Carla? Te lo ricordi, Carla?
Eravamo ragazzi, Carla. Tutta l’incredulità del mondo ci cadeva addosso senza
pudore. E quelle vampate nella scoperta della tenerezza, Carla, ma non valevamo
più della vita stessa? Io penso di sì, Carla. Annuiscimi ancora una volta,
Carla. Lo hai fatto per tutta la vita, non me lo negare adesso. Adesso che
trascorro le giornate a salutare il mondo perché ogni giornata si preannncia
come l’ultima. Annuiscimi ancora. Abbiamo sudato le nostre ascelle con lacrime
di commossa partecipazione mentre ci baciavamo a Capri. Dentro i labirintiti
dell’estate perenne. E un attimo dopo progettavamo la grandezza della famiglia.
Progettavamo la responsabilità, come antidoto a tutti i mali esterni che pure
ci sono stati. La responsabilità, l’unico rimedio scientifico contro l’horror
vacui. La partecipazione emotiva a tutte le sfumature uno dell’altro. Una
morbosità indispensabile, Carla. Sentire le proprie spalle accarezzate dalla
mano libera, Carla.
Ma dove stavamo? Sospesi e galleggianti nell’istante. Se
solo un dio avesse potuto cristallizzare il nostro sentire. Farci stalattiti
umane per tutto il tempo. Non avremmo trascorso i successivi sessant’anni ad
acchiappare disperatamente l’istante andato e che non è tornato mai più, perché
corrotto dal nostro sapere, dal nostro aver provato, Carla. Abbiamo vagato in
coppia, come i barboni all’angolo della strada, alla ricerca non del
Tavernello, ma dell’istante e degli istanti amabili. Ma come è stato bello,
Carla, il tempo in cui l’ingenuità era una risorsa e l’ignoranza un concentrato
di saperi. E i fiori dell’estate che opprimevano i nostri cuori, anche questo
ci dicevamo, addensati dentro una retorica possibile e dannunziana, perché
esclusiva e condivisa dentro i nostri occhi tristi e felici, l’unica retorica
possibile, Carla. Vivere insieme, Carla, come noi abbiamo scelto, ierofanici,
ossidionali, ineffabili, ha voluto significare anche cogliere il senso del
ridicolo di tutti e due, da soli e insieme, e ammirare, con forza e
perseveranza straordinarie, quel senso del ridicolo che scappa via dalle gonne
e dai pantaloni, come la vipera che vedemmo a Maratea sotto brutti fuochi
d’artificio. Estenuati dalle nostre stesse, infinite parole, fluttuati nei
rigurgiti rumorosi della noia e delle noie reciproche, eppure estaticamente
assuefatti a quell’idea di unicità, di insostituibilità che non ci ha reso
unici, dal momento che nessuno è unico, ma insostituibili sì.
Ecco, questo siamo stati, insostituibili.
L’amore è l’insostituibilità...”
Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione, Milano:
Feltrinelli, 2010.
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