Stazione metropolitana di Rebibbia, ore 7:30.
Per strada, sul bus, in metro. Ovunque puzza di fogna e
piscio. Sedili evirati. Facce nere, facce maghreb, facce mulatte, puzze
zingare, donne incinte. marmocchi urlanti neri, occhi mandorlati, capelli
crespi arruffati. Sembra si muovano a branchi, che cazzo spereranno mai di
trovare qui. Dimmi cosa c’entro io.
Mi fa schifo la periferia. Odio questa città. Odio quella
che era la mia città e che ora non lo è più, perché l’hanno sfigurata. Loro con
la loro povertà puzzolente e stentata. E qualcuno avrebbe dovuto fermarli o
cacciarli, che se avessi qualche grado in più ogni tanto anch’io lo premerei
quel bottone lì, guarda che anch’io non sono più né di destra né di sinistra.
E poi non sanno stare in fila, tutti ammassati intorno allo
sportello, che sarà mai una fila –pensano, stanne certo- e perché non possiamo
fare a gomitate e scannarci per pretendere a muso duro chissacché. Meno male
che ci stanno i vetri divisori, altrimenti ce li troveremmo addosso. Che schifo
che mi fanno. Hanno dello scimmiesco.
***
Zona Tor Sapienza, fermata del bus 437. Ore 12:17.
Capelli chiari e lunghi, sporchi. Viso asciutto, forse è uno
slavo del Nord, corpo alto e magro coperto da una canottiera bianca, uno
sguardo che sa andare a fondo, uno sguardo libero. E’ un bell’uomo, penso. Sale
e getta delle occhiate verso di me, mi guarda mentre leggo. Sta per chiedermi
qualcosa.
***
Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via
Salviati, ore 10:36.
Dalle nove a mezzogiorno. Tutti i santi giorni di merda a
smaltire i pellegrinaggi di questi qui. In che Dio crederanno, poi. Sono solo
una massa di straccioni, secondo me non credono più in niente, se avranno poi
mai creduto in qualcosa. Vogliono solo pretendere, non ascoltano neanche le
risposte, loro pretendono perché non hanno niente da perdere e niente da
guadagnare.
***
Cortile dell’Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini,
angolo Via Salviati, ore 10:46.
Dalle nove a mezzogiorno. Ogni giorno li vedo arrivare a
gruppi, mi chiedono dove devono andare per questo e per quello. Fino a qualche
anno fa non avrei mai immaginato che al mondo ci fossero così tante anime
vaganti e così tanti luoghi al mondo, ognuno con la sua gente, ognuna con
vestiti diversi. Ci dicono che dobbiamo essere gentili, ma spesso neanche
capisco cosa vogliono chiedermi. Però non ho niente contro di loro, sarà che il
quartiere dove sono cresciuti non sarà tanto diverso dal mio. Sarà che
neanch’io ci sto bene in questa città, sarà che potrei imparare qualcosa da
loro.
***
Zona Tor Sapienza, sul bus 437. Ore 12:21.
Ha gli occhi addosso a me, smetto di leggere e aspetto senza
sollevare la testa.
“Studia scienze politiche?”
“No, insegno... ma anche gli insegnanti studiano”. Non fa
caso alle ultime parole.
“Insegna... scienze politiche?”
“No. Insegno storia. Storia della Cina.”
“Cina. E dove?”
“All’università. E lei?”
“Io? Io so tutto. La Cina... è tutta colpa nostra. Gli
italiani, è colpa degli italiani. Nagasaki e Hiroshima.”
“Ma Nagasaki e Hiroshima sono in Giappone”.
“Giappone? –aggrotta le sopracciglia stupito- Nagasaki e
Hiroshima... Cina e Giappone non fa differenza, è tutta colpa degli italiani.
C’è il cardinale”.
“Magari anche un po’ degli americani?”
“Gli americani... e chi sono gli americani? sono cristiani,
gli antichi romani”.
***
Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via
Salviati, ore 11:48.
Meno male che finisce, ogni giorno. Peccato che ricomincia,
ogni giorno. Che vorranno mai da questa città vituperata, da questa nazione con
la bandiera umiliata da un popolo indegno. Che vorranno mai, che gli sputi in
faccia li prendo io caro Ministro. Che qua sembriamo gente di frontiera. Come
il west, come il Far West, come coloni abbandonati a noi stessi. Ad aiutare
delinquenti a piantar radici per una rata di mutuo in più. Fottuti bastardi. Tutti, nessuno escluso
***
Zona Tor Sapienza, sul bus 437. Ore 12:25.
“Fuma?”, mi chiede.
“no, ho smesso...”
“Lei è di dove?”
“Di qui, di Roma. Lei?”
“Sono italiano”
“E si sente italiano?”
“No, gli italiani hanno fatto tutto loro, è colpa loro. Mi
vergogno degli italiani. Il cardinale. Dicono bugie, ti fanno credere certe
cose. Ma io so...”
***
Cortile dell’Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini,
angolo Via Salviati, ore 12:00.
Ogni giorno finisce e inizia di nuovo. Ogni giorno dalla
caserma a questo cortile, dal cortile alla caserma, a guardare quanta gente è abbandonata a se
stessa. Sono un soldato dell’esercito italiano, ho diciannove anni e vivrò di un'altra vita.
***
Stazione metropolitana di Rebibbia, ore 12:28.
“Io non la capisco, e poi...” –si ritrae infastidito, si
alza, cambia posto e si allontana- “fumi.”
“No, ho smesso”. Sono intimorito. Il bus si ferma.
Indica la mia bocca. So di non avere lavato i denti
stamattina e so di non avere mangiato nulla da quando mi sono alzato. Non
volevo prendermi cura di me. Sento la sua puzza, mi soffermo sulla sua puzza.
“Siamo arrivati”.
“Sì –mi guarda deluso-, arrivati dove...”
Mi avvio alla porta. “Buona giornata”.
“Per me non esistono buone giornate”.
Fingo sorpresa: “Perché?”
Si avvia a passo spedito, guarda per terra: “Non ti capisco,
non penso che sei un buon insegnante. Se insegni quello che c’è lì” –indica il
libro-“quello è quello che ti raccontano, il cardinale”.
Lo seguo: “Insegno anche a non fidarsi di quello che c’è
scritto sui libri”.
Si allontana: “Non sei un buon insegnante, sei il tipico
italiano. Bugiardo.”
“Mi conosci da due minuti e già sai che sono bugiardo...”
“Guarda come sei vestito, di nero. Un insegnante vestito di
nero, sei come gli altri insegnanti, sei peggio, lo sai che colore è...”
Sono le sue ultime parole. Penso che non si può sempre
fuggire dagli altri. Che a volte bisogna fare qualcosa. Mi chiedo quanti
penseranno la stessa cosa di me.
***
Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via
Salviati, ore 12:30.
Un giorno me ne andrò lontano da questo schifo. Dalla merda
e dal piscio che avete portato da casa vostra. Dai sedili evirati e dalle
bandiere vituperate. Me ne andrò da questa periferia di merda. E voi resterete
qui. Ancora ammassati allo sportello, come bestie che pretendono e basta. E io
avrò pagato il mio mutuo.
***
Stazione metropolitana di Rebibbia, ore 12:33.
Me lo ritrovo giù in banchina. Abbassa lo sguardo e finge di
non vedermi. Gli passo davanti e vado oltre. Arriva il metrò. Non sale. Io sì.
Era un bell’uomo. E’ libero, è solo. Non ragiona ma il ragionamento serve nella
società, non a sopravvivere. Quello è tutto istinto. Ma ha delle reminiscenze,
già, lui sa tutto. Ci sono momenti in cui uno capisce che non può stare sempre
a guardare. Non capisco se scrivere e insegnare significhi stare a guardare. Io
sto ancora a guardare. Lui ha smesso anche di guardare.
Sul metrò un uomo sulla sessantina bracca una signora senza
lasciarle il passo:
“Che ce l’hai un euro?”
Nessuna risposta.
“Che ce l’hai un euro?”
Nessuna risposta.
“Che ce l’hai un euro?”
Nessuna risposta. La signora riesce a divincolarsi e va
avanti. Lui si precipita verso di me.
“Che ce l’hai un euro?”
Lo guardo negli occhi e scuoto la testa. Non mi crede ma si
allontana lo stesso.
Canzoni del mese:
The Tallest
Man in the World, The Dreamer
The Paper
Kites, Bloom
Princess
Chelsea, The Cigarette Duet
Mogwai, TakeMe Somewhere Nice
Nessun commento:
Posta un commento