martedì 23 febbraio 2010

Dopo la vacca venne la tigre

Sei: sveglia. Sei e mezzo: stazione. Nove: apertura botteghini. Nove e dieci: biglietti finiti. Ero il nono in fila, niente da fare. Tutti a casa, anche le decine di persone dietro di me in tutti e cento gli sportelli della stazione sud di Pechino, neanche la più grande della città. Funziona così a capodanno: mettono in vendita i biglietti per le varie destinazioni solo cinque o dieci giorni (a seconda dei casi) prima della partenza. Peccato il giro di corruzione che fa sì che solo una persona su mille riesca a trovare il suo biglietto. Gli altri finiscono venduti a chi ha buone conoscenze, che a loro volta rivendono a prezzo più o meno maggiorato. In barba a chi senza uno yuan in tasca vede sfumare l’unica opportunità che in un anno ha di tornare a casa. L’anno scorso le persone bloccate furono così tante da portare il Primo Ministro cinese alla stazione per calmare la gente infuriata. Ne parlarono persino i telegiornali italiani... Più di due ore in fila all'alba a ibernare immobile. Ma almeno mi sono sentito un po’ più dentro alla Cina, in mezzo a loro e con i loro stessi problemi.
Dentro la Cina. Lo sogni durante le tue giornate, ti lamenti nel non riuscire a entrarci dentro ai cinesi e poi, quando succede, puoi anche non vedere l’ora di uscirne. Perché alla fine in un modo o nell’altro siamo riusciti a partire e tornare al villaggio natìo, a un passo dall’esercito di terracotta, in una città anonima fatta di shopping-mall e disordine. Come tanti posti in Cina, completamente spersonalizzati. Però una volta questa era la capitale di un impero. Quindici ore di treno (abbiamo trovato posto solo su un treno lento), ma almeno avevamo la cuccetta.
Non è la prima volta che mi ritrovo con i parenti dopo l'esperienza dell’anno scorso: tutto nuovo, sia per me che per loro. E ricordo che dopo dieci giorni non volevo andare via. Quest’anno invece ho pensato più volte al momento della ripartenza ed è innegabile che il mio umore appena sceso a Pechino era ottimo. Non sono stato male, tutti molto gentili con me e ho conosciuto meglio i miei futuri suoceri, nella loro quotidiana naturalezza e spontaneità. Ho bevuto e fumato con loro, mi sono sentito felice nel vederli felici. Tutti sorridenti in quella tavolata da decine di persone per il pranzo del primo dell’anno e io a guardali più dall’esterno e contento per vederli contenti, tutti insieme.
La lingua è foriera di incomprensioni già quando a parlarla sono due persone dello stesso paese. Figurati tra un italiano e un cinese. Poi se di fronte siedono un italiano e un qualunque cinese che parla il suo dialetto si arriva all’incomunicabilità senza margine di compromesso. È bello guardare, ma non ogni giorno ad ogni pranzo e cena. Ancor meno se quando torni a casa non trovi riscaldamento e acqua calda.
Ma lo straniero vive di momenti. Attimi di bellezza, nel respirare i gesti che gli altri non notano. Le sfumature a cui chi è familiare è oramai abituato. E così si innescano altre forme di conoscenza, tutt’altro che scientifiche ma intuitive; per nulla approfondite ma evidenti. Guardandomi indietro di qualche giorno mi ricordo osservatore esterno ma anche partecipe. Ero lì, semplicemente a bere, ad offrire e ricevere sigarette, tenere in braccio neonati, accompagnare i suoceri all’ospedale per un controllo, condividere pasti. Ma sempre lì ero e ben accetto. Ho intravisto con frustrazione discussioni interessanti a cui non ho saputo partecipare, ma non è ciò a cui ora posso aspirare. Ero lì per le silenti emozioni. Per inginocchiarmi di fronte alla tomba dei nonni della persona che amo, a rendergli omaggio dopo che i suoi zii e sua madre avevano fatto lo stesso. Per ritrovarmi in una casa di contadini come tanti nel mondo, due a caso a migliaia e migliaia di chilometri da casa mia, due contadini che mi offrivano da mangiare ad oltranza perché era il solo modo per accogliermi. Completamente fuori posto ma dentro un pezzo del mio futuro. A tratti un film comico anche se con vita reale sullo sfondo, un film che avrebbe fatto ridere in molti e che tuttora non riuscirei ad immaginare.

lunedì 22 febbraio 2010

Anelli

Ho continuato a fissarlo almeno per un’ora interrogandomi sul meglio, sul peggio e sul senso della scelta. Pressioni reiterate, implosioni sentimentali, voglia di porgere. Un portafogli troppo vuoto. La scelta è stata fatta: passeggio nei locali di uno di quei mega centri a tema, stavolta con oro e argento. Anelli come simboli di un legame, vincoli sociali, impegni per il futuro, pegni d’amore, segno di status, pro-forma. Ho scelto la prima definizione e mi sono messo alla ricerca di qualcosa che assomigliasse a due rami incrociati uniti da una roccia. Due sottili braccia e al centro una pietra preziosa, vera o falsa che sia. Non mi interessa. Non mi interessa neppure capire quelle spiegazioni sulla differenza tra l’oro bianco bajin e bojin, neppure ricordo bene quello che hanno provato a dirmi. Semplicità e linearità, come il nostro amore. Oro bianco, odio il giallo. È perfetto (se non fosse che costi più del budget fissato, che devo partire e i soldi mancano soprattutto in prospettiva futura, che non riuscirò a mettere da parte quello che avevo preventivato alla fine del mese e poi e poi...). Maledetto il risparmiatore borghesizzato o troppo socialmente inserito nel vivere in società che sono.
Rieccomi in camera. Dopo aver accennato a un pensiero da commedia sentimentale americana. Regalarlo alla prima passante (carina) che avrei intravisto in metropolitana. Infilarglielo in una borsa o in una tasca e scomparire anonimamente. Seduto sul sofà, il notebook di lato, una sigaretta già accesa. Sul tavolino una scatolina rossa aperta e quell’oro bianco che scintilla, così macchiato di società a deturpare la spontaneità di un sentimento. Sarà davvero così? I nostri amori possono esistere di per sé e a prescindere del vivere sociale? Penso di non avere neppure il coraggio di darglielo. Nel tardo pomeriggio ci intravediamo, a casa di un’amica per il mio taglio di capelli di buon auspicio per il nuovo anno. (Mal)celo, ma lei non sa, non può sapere e perciò non capisce. Faccio in tempo a fuggire dal taxi sulla strada del ritorno, in cerca di amici in un pub o per il gelo di Beijing, bere, scambiare pensieri e riflessioni, fumare, di nuovo bere. Come fosse un addio al celibato. Faccio in modo di tardare in modo di trovarla con la luce spenta, distesa sul letto e gli occhi chiusi.
Salgo le scale, mi lavo al buio con cautela, in camera la porta è chiusa. Buon segno. Entro lentamente con le scarpe in mano. Non era mai successo: alle tre è ancora lì ad aspettarmi sorridendo, occhi spalancati e luci accese. Decido che non posso aspettare e che quella convergenza di segnali in cui speravo è arrivata. Mi infilo nel letto, lascio intendere di avere qualcosa per lei, quanto basta per incuriosire. La magia è pronta: dalla mia mano appare una scatola rossa, con dentro due rami (le nostre braccia) appoggiati su una roccia (le nostre speranze). Si infila gli occhiali per capire se è vero, mi abbraccia e sento le sue lacrime. Viene da piangere anche a me per il nostro amore e per aver potuto incontrarla, forse escono una o due lacrime spezzate, forse. Finalmente la società è lontana, nel nostro letto, solo noi senza pressioni e seconde intenzioni.

sabato 6 febbraio 2010

Tra i Mono e Patrick Watson...

...c’è stato un mese d’Italia. L’Italia sembra ferma, uguale a sé stessa, coi suoi vantaggi e le voglie di (ri)fughe. Se penso all’Italia penso alla stasi. Per chi vive a lungo fuori casa come me significa ritrovare ciò che si è lasciato, con carichi di malinconie e retrogusti dolci-amari a cui si legano i miei istinti in modo abbastanza innata, direi. Stesse atmosfere, stessi discorsi, stessi politici di ieri. Mi riconsola dandomi l’idea di non essermi perso niente; d’altronde non ho abbastanza spirito nazionalista-patriottico per compiangermi sulle condizioni della mia terra. La mia terra è la mia casa, la mia famiglia, i miei amici e via via vari livelli di conoscenze e a darmi pensieri sono le loro condizioni, non quelle del povero bel paese.
Quella stessa stasi che mi rassicura mi spinge via dopo due o tre settimane. Nella vita mi sono ripromesso di andare avanti, non indietro e il tornare in Italia per tanti versi mi rimanda nel passato, vuoi per il vivere in famiglia, per il Natale o per l’assenza di lavoro, vuoi per quella stasi che tanto contrasta col fermento pechinese e cinese. Voglio dire, va bene per le vacanze ma non per viverci, non ora almeno.
La fine dei primi due mesi pechinesi 2009-2010 e l’inizio del nuovo soggiorno sono coincisi con due concerti diversissimi. Si dice che una ragazza in Giappone, dopo aver ascoltato la prima traccia dell’ultimo dei mono, abbia ucciso il suo ex. Forse la storia sensazionalistica non era proprio così, ma qualcuno è morto. I mono dal vivo sono come te li immagini, mono-espressivi, su un palco lanciano impassibilmente allo spettatore quell’alternanza di silenzi contemplativi e fragori emotivi coscienti di colpire nel segno ma senza godere per questo. Almeno non lo danno a vedere. Sembrano vuoti, sviscerati da quelle stesse emozioni che lasciano ricadere sul pubblico sotto forma di musica. Japanese style: puoi fissarli in faccia per ore pensando che non stiano provando alcunché ma dentro soffrono come cani. Suonano come in un cd. Solo che lo fanno dal vivo e tutto, ma proprio tutto, si moltiplica: dal rumore allo sconvolgimento alle reazioni del pubblico. Complice un po’ d’alcool c’è chi si è lasciato andare a qualcosa di più vicino a una scopata che a una paccata. Notando la scena penso che sì, effettivamente i mono si adattano a un rapporto sessuale, in una storia d’amore passionale e senza futuro, rassegnata, colma di sigarette e non di alcool, logora di se stessa e dipendente da se stessa. Uno dei più bei concerti degli ultimi anni. Tutta la scaletta dell’ultimo album dalla prima all’ultima traccia (avevo ragione, è un concept album anche se senza concetti a parole) ed io amo il loro ultimo album. Tanto mi basta.
Patrick Watson è arrivato in sordina. Appena arrivato a Pechino faceva un freddo che non so immaginare, due giorni prima i Pet’s conspiracy (due italiani e tre cinesi, band di punta e cool del momento dell’indie locale, una cantante che fa impazzire la platea e musica di qualità) e D.J. Krush avevano riempito le notti di Pechino all’inverosimile. E la gente la domenica non ha retto, se ne è stata a casa. Meglio così, perché io invece ho retto come pianificato le sette ore di fuso orario ed ero lì. Beh, anch’io finalmente posso dire di aver trovato il mio nuovo jeff buckley (tutti quelli che pensano che jeff buckley non è il cantante più sopravvalutato degli ultimi vent’anni hanno cercato la sua anima in qualcuno di vivo). Sì, la voce d’accordo. Ma non solo quello. La musica non c’entra niente, da intendersi, niente di rock e molto di indie come life-style, poche propensioni verso il passato e un suono contemporaneo. La somiglianza è nella concezione della musica, nella capacità innata di fare musica, sentirla mentre scorre nel sangue. Poi l’ironia è come mi immaginavo fosse quella di jeff, e anche lo show: palchi abbattuti, interazione col pubblico, improvvisazioni. Tante belle emozioni, una brutta: Lhasa de la sela se n’é andata. L’avevo scoperta da poco e ne ero già innamorato, 36 anni e un tumore esploso il primo dell’anno.

Ascolti del mese:
A Singer of Songs and Tiny Ruins- Road to nowhere
Liu 2- Lao caifeng
Corrado Nuccini- Famous blue raincoat (cover)
Matt Elliott- Something about ghost
Patrick Watson- where the wild things are
Haoyun- Zhe ge chengshi
Lhasa de sela- Rising

Ah già, fingevo di dimenticare: Brand Tibet sembra in uscita davvero, questa volta, 15 febbraio. Dieci anni fa non avrei mai pensato di finire su uno scaffale di libreria. Andate e comprate.