martedì 31 gennaio 2012

Storia di un amore

Amure mio, a vita è n'estate lassa stari i corvi lassù
ca nun c'è Dio ma c'è un cantu di streghe
e n'tu lettu c'è un diamante che ho nascosto e u poi pigghiari sulu tu.


Cos’altro dobbiamo dirci, è storia d’amore finita. Cambiata, trasfigurata, recitata da rapporto professionale. No, storia di reincontro tra amici, tra birra e vino. O di una cena spesa a osservare e capire. Merda, non ricordo più. Rabbia? Tenerezza? Di un innamorato abbandonato?
Ansia, quella sì. Da prestazione? Da attesa di giorni sgranati come perle di rosario?
E torno a chiedermi cosa c’entrasse Roma e cosa siano stati quei silenzi e quei giochi di coppia e di complicità, siamo uomini in fondo (“ed è questo che ci salva”?).
Chino il capo.
Ma non ci sto e ritorno su, trastullo, frugo, scompiglio e riordino. Inutilmente. Io, io, io, io, cadute di stile e ricadute nell’io. Così umanamente staccati dal punto di osservazione analitico (ed è questo che ci rovina?).
I giochi d’amore e pena sanno essere sottili, dosano gentili attenzioni e schiaffi amplificati dagli echi delle emotività, difficili da catalogare. E allora bevo e guardo su tutti i balconi, ma non è notte di streghe.

Non so da dove siate usciti fuori alla fine, mi portavo dietro quel respiro pesante da mesi, ed è cresciuto di strada in strada. Muri di carta ricreati ad arte e stelle appese a fili che sbucano dal soffitto a forma di cielo. Mi hai parlato di un treno verso il mare dell’Est, mi hai fatto ricordare di avere scritto un libro e di avere esposto una linea di pensiero davanti qualcuno. Ma chi sei tu, con quel volto indefinito? Che ricordo sei?
Di uno, cento e cento amori. Di quegli amori avvolti dal fumo e dimentichi di Dio; metropoli estranianti e familiari, ridenti incoscienti e scoscesi. Così... giovani. Sogni e delusioni, ascensioni e scenate. Corpo su corpo, piumini inspessiti dagli inverni rigidi, che fuori c’erano neve e calzamaglia. Respiri da odorare a occhi chiusi perché quando li riapro in realtà sono distanti.
Non so quanti giorni mi rimangono da vivere, con questo fisico intatto con il pensiero rivolto alla morte.
Quasi non posso pensare di esserci passato sopra davvero. Così, spalla spalla a un ideale, e vitale senza stremo, sulla strada verso Nord o verso Ovest ai bordi del confine. I minimarket 24 ore su 24 puntualmente di notte ero lì per una mild seven in più o per i gelati o per tutti e due. O solo per le insegne luminose dopo il calore di folk e grappa. Non so come sia riuscito a non tremare quando mi ritrovai con quel registratore in mano, la prima volta. La prima volta che lo abbiamo fatto, avevamo appena litigato fino a non parlarci più per un’ora e mezzo di metro e bus. Non ricordo il motivo, solo il silenzio. Mi sarei potuto innamorare di tutti voi, personaggi di una storia persone reali.
Ed è finito.
Per il silenzio su cui ho sbattuto e che ho scolpito per versare lacrime virtuali in assenza di tempo e percezioni di spalle.
Per amorevole compassione.
Per idiozia.
Per ambizione.
Perché dalle giostre scendo sempre per secondo.
Perché forse torno indietro ma in fondo è impossibile ma non so ancora guardare abbastanza avanti.
E mi cullo, mi cullo nel passato col sapore de sogno. Capace di vederli sbucare a Roma, uno per uno. Non dormirci la notte, non trovare le strade, ostentare self control, odiare et amare, bere insieme un goccio in più.

Amure mio, a vita è n'estate lassa stari i corvi lassù
ca nun c'è Dio ma c'è un cantu di streghe
e n'tu lettu c'è un diamante che ho nascosto e u poi pigghiari sulu tu.


Canzoni del mese:

Fabrizio De André, Il suonatore Jones (1971)
Alessandro Mannarino, La strega e il diamante (2009)
Zhang Zhi e Lüxingzhe 张智, 旅行者, Liulangzhe 流浪者 (2010)
Zhang Zhi e Lüxingzhe 张智, 旅行者, Mukulian 木库莲 (2010)

mercoledì 11 gennaio 2012

Nuvole, zio

Perché quella foto lassù non ci può stare, pensavo. In quella fila di lapidi a schiera su più piani.

Perché disarmonica perché quel dolore disarmonico
incrinatura stonata
tra noi famiglia di buoni valori e sentimenti
aspettative semplici
secolari quanto l’uomo.

Due mesi fa, di già.
Siamo cresiuti protetti, con vestiti puliti e giocattoli nuovi. Con padri e madri, disabituati al significato insito, minimale, essenziale della sofferenza.
Ed ero là, non potevo piangere perché non avrebbe mai accettato di vederci sedere di fianco al suo cadavere inanime così a lungo. “Chissà quante risate si sta facendo lassù”, dice la figlia di un padre per scacciare la paura dell’assenza o per dare un atto di fiducia nella vita. O di fede nel Dio.
Avrei dovuto consolare, forse, ma non potevo neanche parlare, non ho da dire mai nulla davanti alla morte. Ogni conforto è un inganno, ogni frase un appiglio per distogliere la mente dall’unica cosa che desidero di fronte alla morte: il ricordo.
Sono di nuovo due mesi che non fumo, un impegno alla memoria. Tra me e me, da me a me passando per un’ascensione in cerca di destinazione senza arrivare.
Un malessere diffidato e sminuito, controlli, ricovero. Un ospedale che sembra un centro commerciale. Le dimissioni, con bombole d’ossigeno ma con una voglia nuova, priva di paura. Sembravano rinascere insieme, tutti e tre: padre, madre e figlia. Insieme mi sembravano una prova in grado di smentire la credenza secondo cui la famiglia altro non sia che un retaggio cristiano. Di per sé, con il loro solo essere. Lievi peggioramenti, un giorno rimandato e atteso che doveva essere festa e si tramuta nell’esibizione pubblica di un dramma. Sguardi compassionevoli, allarmismi in giacca e cravatta, a mezza bocca sul bordo di una piscina. Da lì in poi neanche due settimane, un nuovo ricovero, la telefonata, due giorni di stazionamento, l’inevitabile.
Mi piaceva immaginarlo, pensarlo senza distogliermi mentre ero in sala di attesa. Avrei evitato l’ultima visita in vita, mi veniva da urlare di darmi indietro mio zio, ma era lì davanti ai miei occhi, era il suo corpo che stava cambiando. Dov’era l’ossigeno, pensavo che il respiro fosse sintomo di vita ma non è così, anche chi non riesce più a respirare ha dentro voglia di vivere in sovrabbondanza.
Che ci fanno questi uomini davanti a una chiesa, che ci fa questo prete davanti a un altare a parlare di uno sconosciuto che amava, odiava a prescindere da Dio e quando poteva manifestava miscredenza. Parole a suscitare indifferenza. Aveva paura della morte ed è morto, che ci fa la sua foto fra tutte quelle degli altri al cimitero.
Perché quella foto lassù non ci può stare, penso. Perché quando sposterò la scala metallica, salirò sui gradini, poserò i miei occhi su quella foto, perché –penserò- che ci sta a fare lì il mio secondo padre.

Canzoni del mese:
Amor Fou, Filemone e Bauci (2010)
Neil Young, Heart of Gold (1971)