giovedì 27 dicembre 2012

Sembrava ieri

Endofasia, il discorso interiore. Mao Mao riorganizza dati ed esperienze, realizza cosa sia il vissuto, per assimilarlo e dargli un senso. Siede nella penombra, la cui fonte risulta sconosciuta a uno sguardo esterno. Il punto di partenza potrebbe essere il ricordo: si è ritrovato a percorrere i vecchi viali del campus universitario, stavolta non per andare a lezione ma per altri motivi, o per caso. Sembra ieri e invece sono passati una decina di anni. Oppure ha ricordato così, senza storia e senza troppi perché, gli ultimi anni di scuola superiore. Di quando nella sua testa abbozzava una prima versione della propria coscienza sociale e politica. La prima manifestazione a difesa del popolo del Chiapas. Lui, cinese cresciuto in Italia, che sarebbe prima o poi tornato nel suo paese, scoprendo di non sapere più da dove fosse emigrato. Una madeleine tutta sua, dolce come ciò che di caro stringe a sé, amaro come ciò che il tempo gli ha strappato. Dolce-e-amaro come una commedia all’italiana anni Settanta, odio-et-amo come dicevano i classici latini, yin-e-yang come pensavano dall’altra parte dell’emisfero. La vita gli ha giocato un brutto tiro: gli è scappata via dalle mani senza troppe avvisaglie. Si è ritrovato lì, come un qualsiasi uomo di mezza età a chiedersi cosa stia facendo e perché abbia scelto proprio quella vita tra le tante. Nota i contrasti con la vita di quella sua controfigura, che camminava spensierata tra i viali universitari e marciava a pugno levato senza ancora capire che pueblo fosse quello che unito non sarebbe mai stato vinto. Lui, ragazzo di profondi ideali e buoni sentimenti, è oggi un uomo che non sa relazionarsi con l’esterno, che lavora senza avere un vero lavoro, che ha una compagna senza sapere quanto davvero l’ami e quanto invece semplicemente le viva accanto, che di quel popolo di cui aveva intravisto le sembianze ormai quasi sedici anni prima fatica a ritrovare traccia nel presente. Guardando la luna rischiarare la notturna pace celeste china la testa sulla sua inquietudine lambita dal tormento. Tante ombre ha scorto negli anni e neppure lui sa bene perché non abbiamo assunto una forma definita, una presenza distinta nella sua vita. Il punto forse è che non ha saputo dargli un contorno, vuoi per umiltà o mancanza di personalità, per ideale o incapacità. O forse si spiega nel vecchio principio del tutto scorre, tanto vero nella Grecia quanto nell’India del mondo antico. Vita di sfumature, quella di Mao Mao. Oppure l’endofasia che ha intrapreso non è ancora abbastanza lucida. Fatto sta che la vita gli è sfuggita via. A breve avrà un figlio o una figlia, e chiunque lo venga a sapere gli dice che la paternità sarà un’esperienza bellissima.

mercoledì 19 dicembre 2012

La più bella al mondo

Roberto Benigni lo trovo sopravvalutato, non mi ha mai fatto ridere un granché e mi da fastidio la solennità con cui viene considerato il suo contributo artistico-sociale. Ha un perché, un valore, a prescindere da quanto questi mi rappresentino, ma non li trovo più profondi del perché e del valore di tanti altri nel mondo dello spettacolo, anzi. Questo per dire che ho seguito con stizza la macchina di comunicazione per il lancio del suo programma pro-Costituzione, i refrain di pro e contro politici, pro e contro dell’opinione pubblica, l’evento mediatico. Ad ogni modo l’attualità e l’importanza dei temi sollevati dal programma sono evidenti.
La prima parte ha riservato battute sul ritorno di Berlusconi ed è stata efficace. Un commentatore, non ricordo in quale forum, ha scritto che buon comico è colui che sa ridicolizzare il potere e in questo Benigni è stato molto intelligente (o furbo, a seconda dei punti di vista, io li scelgo entrambi) e più bravo di quanto pensassi. Poi il contributo ai padri della Costituzione, partigiani e teorici (non proprio azzeccata la citazione di Andreotti per il tipo di pubblico del programma...), quindi l’ode alla Costituzione.
Ho trovato il programma efficace per aver saputo portare in prima serata ideali e valori che la vita reale mette da parte. Probabilmente, facendo caso a quando Benigni ha fatto ricorso ai suoi soliti, stucchevoli superlativi, era proprio questo il messaggio che voleva lanciare, risvegliando quel desiderio di partecipazione alla vita pubblica, per cui oggi è così immediato lamentarsi. Lamentarsi dalla privazione subita per mano del politico ladrone, traditore del nostro voto. Sarà pure vero, ma chi oggi in questo paese ha una devozione come quella decantata da Benigni per i principi della Costituzione? Ben pochi, tra i quali con ogni probabilità non c’è neppure lo stesso Benigni.
La coscienza politica oggi non è via facile da scegliere, non si insegna a farlo, né è un qualcosa che è molto compatibile con la società di benessere e dei consumi. Non a caso, la Costituzione è stata scritta dopo due guerre mondiali, quando la gente aveva la pancia vuota, aveva visto la distruzione e voleva ricostruire. E in questo emerge il maggior difetto dell’assolo di Benigni: l’invocazione dei bei tempi andati. Esaltare chi ha lottato per la Costituzione, chi ha scritto la Costituzione e i valori racchiusi nella Costituzione è nobile se si limita all’omaggio della memoria storica, ma è ignoranza se si vuole portare tutto ciò a modello da replicare nel presente. La storia è maestra di vita non perché occorre replicare il passato, ma perché essendo esperienza umana ispira il futuro.
Dire che la Costituzione, l’ideale repubblicano e quello democratico sono oggi anacronistici non significa insultare chi per la Costituzione, la Repubblica e la democrazia ha lottato e versato il sangue, ma portare avanti la loro missione di fronte all’incedere dei tempi. Altrimenti si diventa come il Cristianesimo regolato dalla Chiesa: al di là della nobiltà dei valori universali e senza tempo, una summa di norme e regole che per la società di oggi non valgono più non cedono il passo, vedi le posizioni su divorzio, omosessualità, procreazione e via dicendo. La res pubblica non ha fallito, è stato eroico versare il sangue per essa, ma oggi la società è altro. Sfida di chi vuol fare politica non è quella di riscaldare il brodo della partecipazione del popolo alla nazione e allo Stato (rischiosissimo, perché si farebbe il gioco della retorica di stato), ma capire come conciliare l’individualismo –valore sociale su cui il consenso è dominante, che piaccia o no- con la crisi dei sistemi rappresentativi e la diffusa ostilità per i poteri assoluti.
C’è chi continua a credere che il libero mercato e la libera società si regolino da sé, fortunatamente c’è anche chi dubita di questo e i tempi per ora sembrano dare ragione a questi ultimi  (ma la constatazione non conta un granché visto che i tempi si interpretano onestamente solo con il senno di poi).
Tirando le fila: onorare la Costituzione va bene se si vuole onorare la memoria storica, meno se si vuol rendere statica la storia. Il futuro non è nell’imitazione del passato ma nella sua analisi in rapporto alle condizioni presenti e alle tendenze future, e ciò che era valido ieri non è certo che lo sia ancora oggi, di sicuro non lo sarà domani. In quanti, guardando il programma avranno pensato che sia realmente fattibile riportare in vita i valori della Costituzione?

sabato 17 novembre 2012

Marmore

L'età della transizione - IX tappa


Ci sono momenti per cercare e altri per fuggire. In su, ho paura di quando sarò arrivato fino su fino in cima risalendo acque scoscese e il rigoglio di alberi a mecchie, avvinghiati, a grumi. Ho paura che per continuare a fuggire dovrò ricominciare a scendere e dimmi che senso ha prima salire poi scendere per fuggire. Io fuggo. Prima o poi tornerò a cercare. Prima o poi. E tornerò qui, per altri scopi con altre aurore e forse allora ci saranno arcobaleni ad accogliermi e non cieli chiusi dal vapore acqueo alla fine della piccola galleria degli innamorati. Tre salti, più di cento metri. Come fosse Amazzonia, l’acqua non cade ma scivola, sesso pena pienezza e amore mio. Ed è tutt’uno con la vegetazione intorno, non c’è sconquasso. Tre salti verso l’alto, compagni di fuga, uno due e tre. E poi riscenderemo. E risaliremo. Scenderemo. Risaliremo...

domenica 11 novembre 2012

Micah P. Hinson

Metropolitana linea B, sulla banchina. Ad aspettare, un treno non so per dove, non ricordo in quale stazione.
Da dietro la voce: “buongiorno”.
Ne era passato di tempo. Lei di ritorno da una delle sue tournée, io nella mia vita fatta di stasi e regolarità, saranno i ritmi di famiglia e le docce del martedìpiùvenerdì. Oggi, a trent’anni e poco più non mi succede più di condividere anima e sentimento come quando di anni ne avevo venti o giù di lì. Non so perché. Allora passavamo i sabati su un letto a cambiare cd e a parlare di incontri e sensazioni, e le parole non erano prosciugate come oggi.
Metropolitana linea B, sulla banchina. Lei mi dice “buongiorno” con l’aria piena di chi viene dal mondo dei vivi, così decido di cambiare programma e accompagnarla a casa, quella di una volta. Prima o dopo un pranzo cinese, tira fuori la sorpresa. Dal lettore esce una voce indolente, che viene non so se dalla trachea o dallo stomaco. Comunque da dentro, come ciò che canta. Stona, dissona e ritorna a suonare calda. Voce e chitarra, melodia che richiama where is my mind? ma con un’anima diversa. Micah P. Hinson canta the possibilities. Da allora saranno passati non so quanti anni, forse cinque o sei, forse di più. Ho accumulato un paio di album e aspettato congiunzioni astrali e incastri giusti per vederlo dal vivo. 5 novembre 2012, circolo degli artisti. Attacca con take off that dress for me, una delle mie preferite, e capisco che quella è proprio la sua voce, una delle migliori voci maschili dell’ultimo decennio. Ma da sola non potrebbe fare niente, se non ci fosse il suo vissuto da sviscerare, da raccontare con parole e con chitarra, con quel modo di suonare e comunicare.
C’è stato sotto, con droghe o con alcool, non ricordo più. Racconta senza freni di sé, d’altronde è un artista. Ha movenze strane, eccentriche; non è un nerd ma a tratti mi fa venire in mente un personaggio di Nathan Never, il mio fumetto preferito di gioventù. A volte assomiglia a Sigmund, nonostante apparentemente il contrasto sia evidente. Parla molto, di sé dell’ispirazione dei pezzi che canta. È di quegli americani alternativi che dicono fuck ogni tre parole, cosa che dovrebbe far riflettere sugli alternativi americani. Il mio inglese non mi permette di andare lontano, ma credo non stimi molto Elvis (“Quale cazzo di ré del rock and roll, come cazzo può essere un ré uno che non scrive le canzoni che canta?”). Si è scordato due, tre volte la seconda strofa di Suzanne (“Fottuti canadesi”), a tratti nel suo non poter soffrire niente e nessuno sembrava triste. Ha ringraziato a più riprese il pubblico romano per avere ascoltato la sua esibizione senza parlare troppo e sembrava sincero. Sul palco, a parte lui, c’era un tavolino. Sopra un succo di frutta, la tracklist, una bottiglietta di birra o acqua, delle pastiglie che di tanto in tanto ingeriva. Dall’altra parte della sera un corvo finto o impagliato.
Mi è sembrato abbastanza indecifrabile, ma forse ho conosciuto troppo pochi americani nella mia vita per farmene un’idea. Però un legame tra come si comportava sul palco e quello che cantava c’era. Ispirazione cantautoriale, sa suonare anche bene, violento di una passione sofferta sulla chitarra e sul suo approccio alla musica. Non è un problema se ogni tanto il finger picking fa cilecca, fa parte di ciò che comunica. Così per la voce: calda, profonda, viscerale e un attimo dopo urlata, steccata, lacerata.
Bello davvero vederlo dal vivo, toccante fino alle ossa.

Ci abbracciavamo
Senza riuscire a vedere
Il futuro che ci pendeva davanti
Il passato ora è troppo lontano per essere visto
Ma non guardavamo e non facevamo caso
C’era qualcosa rimasto tra noi, allora,
Ma ora immagino che semplicemente non sia più lì

Quando ci baciavamo, sai
non potevamo vedere, sai
Il futuro che ci pendeva davanti
Il passato ora è troppo lontano per essere visto
Ma non guardavi e io non facevo caso
C’era qualcosa rimasto tra noi, allora,
Ma ora immagino che semplicemente non sia più lì


Micah P. Hinson, When We Embrace, in Micah P. Hinson and the Red Empire Orchestra (2008).

domenica 4 novembre 2012

Il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà

Ci sono film come C’eravamo tanto amati. Ritraggono la vita per quello che è: esperienza di bellezza e imperfezione umana che lascia il riso nel rimpianto e l’amaro nella speranza. Narrazione di uno slancio abulico, di figura angelica che si scopre umana, ancorata a terra e prigioniera di catene innate. Scola dirige, Trovajoli musica, Satta flores, Gassman e Manfredi recitano un’epoca di cui fanno parte e tutto si filma così, con tale naturalezza, che fa pensare di trovarsi davanti a un film che non poteva non essere girato, perché dentro c’è tutto quello che una generazione ha avuto da dire, confidare e confessare. Sogni, malefatte e disillusioni. Un ritornello umano che assume sembianze diverse a seconda delle epoche e dei palchi ove il vivere riprende forma. Vedere C’eravamo tanto amati è insieme esperienza estatica, esperienza storica ed esperienza umana che lascia spogli.
Nessun momento, come la fine di una guerra, meglio si sposa con l’idealismo. A pensarci superficialmente, se qualcuno chiedesse –a me che guerra non ho vissuto- che cosa succede alla fine di una guerra, risponderei che si fa la conta dei morti. Eppure l’uomo tende alla vita e alla sopravvivenza, a legarlo alla morte ci pensa la natura. Ci sono persone che restano ancorate al dolore di milioni di morti, gente che esce dalla storia. Ma chi accetta il tempo, chi accetta la vita è già lì, crede di sapersi rialzare senza commettere gli errori di chi lo ha preceduto, con la baldanza di chi vuol fare il futuro. Borghesi. Proletari. Intellettuali. Palazzinari. Avvocati. Scribacchini. Portantini. Arrivisti. Attori. Registi. Padri e madri. A ognuno la direzione che sceglie, per la disillusione c’è tempo. Anche se la vita, vista a ritroso, sembra sempre più breve.

Eravam tutti pronti a morire, ma
della morte noi mai parlavam
Parlavamo del futuro
Se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni
sempre uniti ci terrà.

da: Maria Teresa, E io ero Sandokan (musica: A. Trovajoli, testo: E. Scola, 1974)

giovedì 1 novembre 2012

Fin da qundo ero piccolo

Mi è venuto in mente così, pensando al presente, al passato e al futuro. Ho pensato a come le particolarità e i gusti di una persona emergono da cose anche insignificanti, sfiorate da bambino. Ero alle elementari, la prima volta che mi sono imbattuto nei modi e nei tempi verbali. Da piccolo ero abituato a dividere sempre tutto in buoni e cattivi. Mi piacevano i greci e non i romani, i babilonesi e non gli assiri. Mi incuriosivano i persiani e i fenici, era quanto di più lontano potessi immaginare allora. Così, anche i verbi erano simpatici o antipatici. Adoravo il condizionale, mi piaceva per il suono e per la cadenza, ma anche per quel velo di ipotetico che portava sempre con sé come sua condizione; anche se allora ancora ignoravo l’ammirazione per i “se” e per i “ma” che mi sarei portato dentro in futuro. Poi c’era il futuro anteriore, era il tempo che mi intrigava più di tutti, quello che non capivo e che mi affascinava con il suo mistero. Forse sarà stato per l’associazione tra futuro e passato che si porta dentro, per quel futuro che è già un po’ passato. Chissà.
Lunedì 5 concerto di Micah Paul Hinson. Ci sarò.

venerdì 21 settembre 2012

Via Cassia

L'età della transizione - VI tappa (a ritroso)


Su strada tutta curve rigoglio bagliore di viandanti di direzioni opposte, ignoro la notte guardo dritto in fondo oltre la strada il buio le domande e il sonno dei compagni di tratta. Penso che ci raccontiamo che sì, passiamo il tempo a lasciar credere e immaginare. Che abbiamo mille impegni e cose a cui badare, quando invece è solo l’infelicità a rinchiuderci, e a estenuare la voglia di emergere e incontrarci. Come ai bei tempi. Vita di pause. Al mondo c’è chi cerca l’esperienza della vita e chi soggiace nelle pause interrotte da moti minimi, minuti.
...

domenica 16 settembre 2012

Le case degli altri - Ricordo n° 1

Che il giorno dopo, nelle case degli altri, non si può ricominciare da dove si è interrotto la sera prima l’ho trovato scritto in Nirmal Verma. È successo anche a me, studente universitario, tanti anni fa. Allora stavo comodo nella vita, come fosse un pantalone nuovo. Con i miei volumi alti ad amplificare passioni esagitate da interiorizzare. L’avevo incrociata solo sui banchi di università, Anur, era bella, mi colpiva e incurvava la mia schiena costringendomi a guardarla di striscio e occasionalmente al suo saluto di passaggio. Era anche brava, studentessa brillante e curiosa, che aveva visitato continenti lontani sempre con un passo di anticipo.
Per questo non mi spiegavo come quella sera fossi potuto finire a casa sua, senza esserci praticamente mai parlati. Questa non è una storia d’amore, oppure non so, dipende da cosa sia l’amore. Odul era sdraiata sul divano e dormiva a gambe aperte. Ma nessuno le faceva caso, non ricordo neppure quando se ne sia andata. “Se vuoi puoi stare da me stanotte”. Non riuscivo a crederci, avrei voluto chiederle di ripeterlo e ripeterlo ancora, ma non sono stato così stupido e accettai di buon grado senza tradire emozioni. Fra le mie braccia stringevo una chitarra, e mi fece suonare per ore. E poi se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare. E ti piace ascoltare la voce di lei: suonare con chi sa cantare è un’altra cosa, senti l’arte passarti nelle mani.
“Ho Fame”. E allora cuciniamo di notte, quando c’è il silenzio. “Mi è venuta in mente una cosa”. E allora raccotamela, la ascolterò al riparo dai rumori della città. Ripresi la chitarra e Anur cantò ancora. Dopo le prime luci dell’alba le venne sonno. Poco importa che mi condusse nella stanza degli ospiti. Dopo essere diventati amici mi confessò che quella notte si era chiusa in camera a chiave, ma cos’è l’amore se non un sogno a volte da aspettare e a volte da consumare. Dopo poche ore mi risvegliai e non riuscii a ricominciare dalla sera prima: nulla mi apparteneva, neppure quella notte bugiarda e incosciente, sospesa tra un tramonto e un’alba qualsiasi.

Citazione del mese:
“C’è musica nel seno umano, profumo nel corpo, e sai cosa c’è nel contatto fisico?”
“Fuoco?”
“No, sbagliato, il contatto fisico è come la carezza del loto e del sonno!”
(Gopinath Mohanty, Un letto di spine)

sabato 1 settembre 2012

Montréal

L'età della transizione - VIII tappa



Aurora. Boreale, di ghiacci sciolti al calore del sole città che sorge. Sapiente. Di tendenza. Se stessa. Da McGill a Rue Milton e sempre più a Nord Est ospite di eleganze piene di vita. E quel muovere di musica cinema arte contaminate di etnie ai piedi del duemila, la normalità della lotta quotidiana per creare delle idee. Ne ho sentito solo il richiamo, ma ci giurerei. Studenti in marcia a braccia levate, ci giurerei che è vero e credevano ancora in un percorso alternativo. Grido d’amore a prima vista la coscienza di saperci stare in quella terra allo sbocco del Saint-Laurent, in una di quelle case tutte a punta e scale a coesistere con le nevi invernali e i risvegli estivi di Places des Arts.


Imbrunire. Sul bordo di un lago buddhismi di provincia americana fatti a forma di verde rosa giallo blu tonalità rigorosamente pastello legno apparenze e barbecue. Il sorriso giusto è quello a otto denti, nella Val David, e le macchine sono lunghe molto lunghe, o alte molto alte. Sarà davvero quiete la loro? Visti da dentro non mi viene da odiarli. No, davvero. Non l’avrei mai detto.


L’indomani, sole a mezzodì. È la capitale, è normale che risplenda. Di un riflesso ripulito della realtà e per questo ancor più appariscente. Cinta di mura da cavalcare. Lo Château Frontenac, semplicemente il centro monumentale, che non puoi fare a meno di averlo davanti o a sinistra o a destra della vista. Musici e artisti di strada, puoi guardare al fiume come fossi nel Settecento Ottocento mitteleuropeo. Discesa roca nella città bassa, fino al Petit-Champlain, moto di genti giunte da ogni angolo della terra ad affollare botteghe e bistrôt in spazi angusti. Sono solo di passaggio, naturale, non so stare in mezzo a tutto questo bagliore rimesso a nuovo.


Vespro attesa alba nuovo giorno consumato e ancora nuovo giorno. Vorrei che non finisse più. Vorrei fermarmi. La pioggia inonda la mulattiera tra due costoni, mi fermo arranco riprendo alla cerca del numero 12, Montée di non so cosa. Busso alle porte sento respiri tra le fessure delle assi e dei legni nessuno apre potrei crepare qui fuori. L’ultimo sforzo, quello che viene prima di un materasso a dirti che anche tu puoi farcela prima o poi. L’alba di un giorno nuovo, con sole a dare luce ai due crinali e in mezzo il fiume sono già in paradiso e sto sognando. Salgo fin su alle cime guardo all’altezza del mondo passo la mano su tronchi d’acero pini e pioppi su muschi e terra bagnata. Nuoto in acque gelate, le navigo nella quiete e nelle discese rapide. Niente è eccezionale qui, è bellezza ordinaria e per questo vorrei starci sempre un giorno in più e scoprire a ogni aurora che nell’ordinario esiste la bellezza se si è in grado di vederla.


Crepuscolo. Sporco. Altezze di palazzi soffocanti. Strade strette. Rumori e cantieri ovunque macchinari accesi, metropoli odio le metropoli. Qui si è persa la diversità, le persone parlano una lingua sola ma hanno lineamenti diversi, sono tutti di qui, del posto ma tradiscono origini lontane lontanissime, storie da raccontare che forse non conoscono neppure più. Mi chiedo se è questa la direzione dell’uomo, la perdita delle distinzioni la nascita di un essere nuovo che non è più quello di prima che non ha le sembianze dei nuovi venuti e che non ha più confini. Chissà, se saranno tutti nostri simili forse la smetteremo di combattere, ma a quale prezzo, quello della perdita della diversità. Ne ha fatta di strada il vecchio Fort York, dalle sua mura dimenticate la si può vedere tutta a chiare linee. Toronto. C’è chi dice che nella lingua dei nativi significhi ‘crocevia’. Altri –sembra con maggior cognizione di causa- sostengono che significhi ‘nassa’. Tutto torna.
...

giovedì 9 agosto 2012

L'andatura delle onde

 È bella la ‘pacienza’ in napoletano perché mette un po’ della parola pace dentro la pazienza.
Non lo mette nero su bianco Erri De Luca, ma seguendo la cadenza della scrittura di Tu, mio sembra volerti dire che guarda alla pazienza come a una virtù, raramente conclamata ma costantemente presente. C’è pazienza nell’imparare a “maneggiare l’arte” della pesca, nell’apprendere l’amore e la virilità, nel godere della giovinezza e nell’ascoltare la storia. Quasi contemporaneamente leggevo Tabucchi, il classico Sostiene Pereira. Distante di lontananze stilistiche, votato alla sintesi e alla semplicità dell’animo umano, mentre De Luca va a frugare nella sua complessità e nelle sfumature. Però sono due libri che si riuniscono altrove, forse anche nella pazienza, voglio dire nell’andamento. Libri di mare, scritti con lentezza. Come un respiro profondo fatto con l’intelletto al sole più che con i polmoni.
Poi nella presenza della storia: da una parte il ricordo immediato della guerra, il giorno dopo; dall’altra l’attesa preparatoria della guerra, il giorno prima. In Tu, mio la guerra è messa da parte (dagli uomini, ben inteso, perché la guerra in sé non vuole essere dimenticata né si lascia dimenticare). Il giovane protagonista che prova a capirla –solo tra tanti ragazzi- non riesce però a conoscerla fino in fondo, finché non ne diviene partecipe in prima persona, seppure con anni di riardo. La memoria può riprodurre l’immagine della guerra su un libro o su una foto, può renderne il suono in un racconto di un sopravvissuto. Ma la guerra chi non l’ha vissuta non sa che cos’è. Rievocazioni, giornate della memoria... è quel che si può fare per ricordare, ma non ci aiuteranno a evitare nuove guerre, perché così è l’uomo di fronte alla storia: le ferite sui corpi si trasmettono sulla pelle dei figli, ma si attenuano su quella dei nipoti e diventano racconto avvincente nell’immaginazione dei pronipoti.
In Tabucchi invece la guerra è nel timore, anzi nella coscienza della tragedia in preparazione. Siamo alla fine degli anni Trenta, a Lisbona gli echi del nazismo sono distanti, meno quelli del franchismo. Il conflitto è nel dilemma della scelta, tra una vita normale sempre più difficile da condurre e l’accettazione della realtà, seguito dall’atto di eroismo destinato al sacrificio. La genesi dell’azione passa per il grottesco, quello di un giornalista che cerca notizie da un prete o da un cameriere (Pereira gli chiese cosa gli era successo e padre António gli disse: ma come, non hai saputo?, hanno massacrato un alentejano sulla sua carretta, ci sono scioperi, qui in città e altrove, ma in che mondo vivi, tu che lavori in un giornale?, senti Pereira, vai un po’ a informarti), ma di fronte alla morte violenta di un figlio –desiderato, mai avuto, sempre immaginato e ricomparso nelle sembianze di un neolaureato in filosofia, innamorato e idealista- di fronte alla morte di un figlio in guerra la scelta non può aspettare: l’abbandono torna a essere vita e atto eroico.
È un bel tipo Pereira, l’ideale di persona che vorrei essere se dovessi mai riuscire a raggiungere i sessanta, davvero un bel tipo. Con o senza atto di eroismo. La sua scelta non è facile: dovrà passare attraverso la privazione della libertà di espressione, una riflessione sul pentimento, confusione interiore e molti incontri. Con due giovani idealisti senza futuro, con ebrei e intellettuali in fuga, o con intellettuali allineati, con dottori a spiegare la complessità dell’inconscio. Ma più che la scelta finale mi intriga il percorso all’interno di una società proto-fascista condotto da uomo qualsiasi, solo, abbandonato alla vita dalla morte della moglie, a suo modo sereno, dotato di gusti semplici e con poche esigenze, di cui si intuisce una gioventù piena, magari anche con predisposizioni “anarchico-individualiste”, ma pur sempre votato alla cultura e non alla politica, un intellettuale poco riconosciuto, a tratti buffo e maldestro, ma aperto al confronto e alla riflessione, a tal punto da capire il dramma incombente e prendere infine posizione.
De Luca e Tabucchi ci dicono che la gente insomma tende a far finta di niente davanti alla guerra, a malcelarla e sminuirla sia prima del suo scoppio, quando cova, sia dopo la sua fine. Prima la si nascondeva dietro a un dito, alla paura o alle manìe di grandezza, a seconda dei casi. Poi dietro alla vergogna: Ero la sola persona cui interessavano quelle storie. Dopo la guerra i vivi avevano indurito il silenzio, un callo sopra la pelle morta della guerra. Volevano abitare in un mondo nuovo.
E chi vuole conoscere la guerra deve imparare prima a non ascoltarla passivamente e poi ad accettare di non averla vissuta, perdendo almeno in parte la possibilità di capirla. Infine la devi accettare senza desiderio di volere ripristinare la giustizia cercando la vendetta. Perché, come scrive Erri De Luca, il passato è così, non si può correggere. Perché i soldati italiani sono stati i nemici di gente comune, perché una volta che i soldati tedeschi sono diventati i nemici anche loro sono caduti gridando aiuto. E dopo averli visti da morti, ll’odio se pure l’hai tenuto in corpo non ci sta più.

venerdì 3 agosto 2012

Tempi di scelte e ribellioni anonime, da uomo qualunque


Mi sono licenziato. Cosa perdo: stipendio. Cosa trovo: sottili libertà. Cosa facevo: per alcuni sarebbe stato più corretto dire cosa ‘non’ facevo. Perché il mio era uno di quei lavori inutili, che ti vergogni a dirlo quando te lo chiedono. Aiutavo delegazioni di enti pubblici cinesi a venire in Italia per brevi visite e incontrarsi con enti pubblici italiani. I cinesi viaggiavano con soldi pubblici e per entrare avevano bisogno di un visto (cioè di una lettera di invito da parte di un ente pubblico italiano) e di un incontro di facciata (al ritorno in Cina avrebbero dovuto portare delle foto a dimostrazione che erano andati in Italia davvero per lavorare). Gli statali cinesi stavano in Italia per 4-5 giorni (Venezia-Milano-Firenze-Pisa-Roma) e incontravano un ente per due ore, il resto vacanza. Gli statali italiani tentennavano prima di firmare le lettere di invito (se poi i delegati cinesi fossero immigrati clandestinamente ci sarebbero state responsabilità penali) ma quando arrivavano le delegazioni potevano perdere una mattinata di lavoro d’ufficio a stringere mani, scattare foto e accumulare racconti da rivendersi la sera a cena. Facevo questo in nero, perché di tutti i curriculum che ho mandato questo è stato l’unico posto con uno stipendio vero offertomi e ora ho una moglie, vorrei affittare casa e fare un figlio. L’ho fatto impegnandomi molto e cercando di vedere se riuscivo a sviluppare contatti più duraturi rispetto ai canoni dell’azienda. L’ho fatto per un anno. Ora ho deciso di finirla qui e di non prendere più in giro nessuno, incluso me stesso. Sono teso per il futuro, forse riuscirò a sentirmi anche liberato una sera di queste. Non riesco ancora a capire, in tutta questa storia, cosa avrei dovuto fare per dimostrare a me e a chi mi gira intorno di avere senso di responsabilità. A breve partirò e al ritorno cercherò di capire. Capire se esiste una strada che potrei percorrere per guadagnarmi da vivere senza fare cose inutili in nero. O se quelli come me non hanno granché da dire nel mercato del lavoro contemporaneo.

Album di giornata:
65daysofstatics, The Destruction of Small Ideas (2007, dall’inizio alla fine tutto d’un fiato)

giovedì 2 agosto 2012

"Luglio suona bene" - Parte III


Cronache dalla cavea, dal laghetto di Villa Ada e dal Circolo degli artisti. Beethoven, Madredeus e Will Oldham più band, tutto in una settimana. Musica e cultura sono tornati nella mia vita, vissute in modo un po’ troppo solitario, ma è pur sempre un punto di ri-partenza.

Si dice che sia stato un attore. Su Will Oldham ho raccolto poche notizie, ma lo ascolto da qualche anno, seguendo alcuni dei suoi tanti, troppi progetti. Il suo nome ritorna, sempre, con costanza, accanto a musicisti che apprezzo e a forme musicali che sento di amare dal 2009-2010 o giù di lì (sempre con i miei ritardi, non sarei un granché come interprete di nuove tendenze musicali di nicchia, ma mi piacerebbe capirne eccome se mi piacerebbe...). La cosa che lascia stupiti è che dietro al 90% dei nomi che sembrano interessanti e in cui uno si imbatte mentre è in cerca di cantautori ci si potrà trovare lui e sempre lui, la sua mano o la sua partecipazione; per il folk dell’ultimo decennio, mi viene da pensare che la sua funzione possa essere vicina a quella di Ben Gibbard per quel filone indietronico-folktronico-glitchpop chi più ne ha più ne metta di inizio Doppio zero: dovunque vai a grattare ci trovi il buon Oldham a cantare in prima persona, a collaborare, a suonare o a produrre... Di lui si parla come di un abile scrittore di liriche, ma finora non ho mai avuto la dovuta pazienza da dedicare ai suoi testi. In realtà non saprei neanche indicare le sue migliori canzoni, però lui nella mia quotidianità c’è, con incisioni ascoltate con abituale costanza, a riecheggiare gran parte degli stati d’animo che mi contraddistinguono da tre quattro anni. Le scelte di Sorrentino hanno consolidato le mie buone convinzioni nei suoi confronti, il suo personaggio di personalità ha continuato a incuriosirmi fino a creare attesa per una sua esibizione in Italia. Ho saputo della sua data romana per caso e con tre giorni di anticipo, dopo aver già speso decine di euro in eterogenee attività concertistiche e con l’impegno -già preso- per andare a vedere di lì a pochi giorni anche il concerto di Anna Calvi. Tant’è che... vabbè, chissenefrega, tiro fuori i miei 15 euro e passa la paura. La sala non è piena, molto meno di quello che avrei potuto pensare considerando frontman e location. Il personaggio c’è, lo stile pure e anche il contatto con il pubblico. Atmosfera gioiosa nonostante la natura introspettiva di molti pezzi. Facile capire di trovarsi di fronte a una persona che sa comporre e rendere sul palco con la dovuta fiducia e la giusta forza demistificatrice. Poi attorno ha cinque buoni musicisti e ottimi controcanti. Sembra quasi che reciti delle movenze goffe sul palco, da buona anti star in grado di trascinare il suo pubblico. Nella sua musica non avevo mai dato troppo peso alle componenti country, che qui invece fanno da padrone con ironia e festosità. All’inizio quasi me ne sono dispiaciuto ma poi ho preso bene il tempo alla reale natura e tutto è rientrato nell’armonia della musica del buon Oldham. Cosicché, al momento del bis, non mi ha per nulla stupito vederelo rientrare con camicia di jeans e sopra stelle e lune rosso fosforescenti per un country in più. Un’ora e mezzo prima, mentre entravo in sala a concerto iniziato, invece sussurrava melodie con fare poetico. Mi ero appoggiato al muro: davanti a me la figura di una donna distesa lungo la parete, un’acconciatura di spalle a forma di casco, un ventaglio che staglia il calore estivo e sullo sfondo la luce verdastra che viene dal palco per riflettersi sul volto di tre quarti della sconosciuta. Un’immagine che sembrava fotografia di Christopher Doyle, forse da scattare a Kyoto o forse a Hong Kong. Chissà se Will Oldham avrebbe potuto scriverci una canzone.

martedì 31 luglio 2012

"Luglio suona bene" - Parte II


Cronache dalla cavea, dal laghetto di Villa Ada e dal Circolo degli artisti. Beethoven, Madredeus e Will Oldham più band, tutto in una settimana. Musica e cultura sono tornati nella mia vita, vissute in modo un po’ troppo solitario, ma è pur sempre un punto di ri-partenza.

Del Portogallo non ho mai saputo granché: Lisbona me la immagino lenta e indolente, ma intellettualmente impegnata. Con porto, calli, caffè un po’ malinconici e gente che guarda agli spazi sterminati degli oceani. Fotografia ben precisa, che ritorna ostinatamente, ma difficile da mettere a fuoco, forse perché in realtà non ci sono mai stato. Mi chiedo anche se il mio Portogallo abbia qualcosa a che vedere con la città vera. Ho letto Saramago, leggo Tabucchi, leggerò Pessoa e forse un giorno anche Pires e Antunes. Penso i grandi navigatori dei secoli andati, ho un’idea vaga della spigolosità di Amália Rodrigues e non sto troppo a pensare se non ho mai visto un film di de Oliveira. Forse a darmi quell’immagine di mare e caffè, intelletto e nostalgia sono i Madredeus. O Paraiso anni fa mi ha squarciato, ha soppiantato Lezioni di Piano di Nyman nei miei momenti di studio, ricerca, di lettura e di profondità condivise. A seguire mi sono procurato Faluas do Tejo e Ainda, creando un contatto con il fado più sul piano della percezione che su quello della ricerca e dello studio. Forse perché sin dal primo ascolto è stato come mare a permeare spiaggia, con così tanta naturalezza da farmelo sentire come fosse stato sempre mio. Forse perché ha accompagnato i momenti in cui mi innamoravo della ragazza che avrei infine sposato. Non mi sono neanche poi interessato granché a come sia cambiata negli anni la formazione, ho scoperto da poco che Teresa Salgueiro ha lasciato il posto a Beatriz Nunez e che le formazione originale è pressoché scomparsa. Si legge di una musica che negli anni ha preso le distanze dal fado per votarsi alla contemporaneità, ma chi li conosce a modo mio non fa caso a queste analisi approfondite, volte a spogliare e decodificare. Sì, saranno pure cambiati nel tempo ma le sensazioni che provo ascoltandoli sono un porto sicuro e caldo. Prima di vederli dal vivo ero davvero emozionato. Nota intonata: l’unione di voce e chitarra con attorno alberi e lago di sera a creare una simbiosi distaccata dalla realtà. Nota stonata: una lieve abbondanza di violini (ma sempre magistralmente suonati) e alcuni suoni staccati dalla tradizione. Ma erano pur sempre i Madredeus e tanto l’animo quanto l’intelletto sono stati colmati.

domenica 29 luglio 2012

"Luglio suona bene" - Parte I


Cronache dalla cavea, dal laghetto di Villa Ada e dal Circolo degli artisti. Beethoven, Madredeus e Will Oldham più band, tutto in una settimana. Musica e cultura sono tornati nella mia vita, vissute in modo un po’ troppo solitario, ma è pur sempre un punto di ri-partenza.


Musica classica. Ho sempre pensato di non avere l’orecchio abituato per godere della musica classica. Ci ho provato poco nella vita finora, ricordo come abbia tentato di avvicinarmici intorno ai 16 anni o giù di lì. Non è mai stato un problema di fascino e di ascendenze. Le sinfonie mi hanno sempre incuriosito anche da bambino, quando ne ascoltavo il volume spropositato straripare dalle pareti dello studio paterno e restavo a contemplarne l’inaccessibilità a discapito delle esplosioni orchestrali. Epica solenne, interiorità, alone di mistero. Mi incuriosiva la musica classica, anche per la strana –e tanto, quanta umana- commistione di regole e passione. A provare a capirla ci provai per la prima volta in età da liceo. Era un periodo strano, di amori tormentati e passioni sfrenate. Il mio approccio fu analitico: estrapolavo dai 33giri ogni passaggio di una musica sinfonica, dandogli un titolo che ne coglieva aria e atmosfere, e registrando ogni variazione e ripresa, i crescendo e le pause, la quiete e l’orchestra. Erano anche gli anni in cui mi commuovevo sentendo i frammenti delle opere più conosciute: Ridi pagliaccio sul tuo amore infranto, ridi del duol che t’avvelena il cor... Vesti la giubba, la tragicità di questo passaggio mi inchiodava alla dignità della sofferenza; Ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà! No, no, sulla tua bocca lo dirò, quando la luce splenderà... Nessun dorma, un inno alla delicatezza unita all’estasi più pura del suono. Così, aveo scelto di confrontarmi anche con le sinfonie. Presi un po’ a caso tra i tanti: Borodin, Tchaikovsky e Wagner (lui sì, volevo farmelo piacere a tutti i costi) e mi misi a catalogare con spirito analitico ogni frammento delle loro opere per provare a memorizzarne le evoluzioni e rintracciare le radici delle esplosioni strumentali. Fu un tentativo razionale che non portò a molto, ma lo accompagnai con una lettura emotiva, non avendo gli strumenti per cogliere tecniche e contesti storico-culturali. Una quindicina di anni dopo non è cambiato molto. Mi ha fatto effetto vedere per la prima volta dal vivo un’orchestra suonare, abbinarla al volo dei gabbiani o a quello degli aerei diretti chissà dove in un cielo volto al crepuscolo. Mi ha toccato, molto, a tratti, ma a volte ero totalmente assente, distaccato da ciò che avveniva sul palco e ho avuto l’impressione, proprio come a quindici anni, che mi siano mancate delle chiavi di accesso. La musica sinfonica continua avere un sapore troppo aristocratico per la mia semplicità nel vivere la musica, forse è per questo che non sono riuscito a farmi scuotere fino in fondo dalla nona di Beethoven. Mi è bastata l’emozione di sentire un’orchestra dal vivo. E ad ogni modo non ero lì solo per me, ma per accompagnare la gioia di un’altra persona: auguri papà, è bello vederti felice come me da bambino e mi portavi a giocare in un parco acquatico in una qualunque giornata d’estate.

Canzoni del mese:
Giacomo Puccini, Nessun dorma
Ruggero Leoncavallo, Vesti la giubba
Madredeus, O Paraiso
Madredeus, A andorhinha da primavera
Madredeus, Coisas pequenas
Bonnie Prince Billy, Strange form of life
Bonnie Prince Billy, Lay and love

sabato 14 luglio 2012

Borbona

L'età della transizione - VII tappa


Di radure e stelle. Di luna, cieli e cime. Di pini e faggi. Di film muto, visto a distanza di spazi e tempi per capire che ci si è dispersi chissà su quali terreni, fra capitali tropicali e lingue diverse. Pellicola rovinata, colori stinti e sei persone che parlano, ridono, camminano, senza poterne rintracciare parole, ispirazioni e –forse- persino le mete. Il ritrovo è vuoto. Come il buco della notte. Un fremito che risale nell’ombra, canto d’amore di gioventù. Il vissuto è vissuto, resta vissuto. Vissuto, interiorizzato, proprio: di radure e stelle. Di luna, cieli e cime. Di pini e faggi. Di un poeta che canta l’amore del restare, di incontri occasionali e tende tirate su ai piedi del chiaro di luna. Delle voci, pause di sonni accennati e parole da pronunciare e ascoltare. Di colori, tanti quanti le sfumature della notte: ogni suono ogni passo su foglia ritornata alla terra. Ogni visione dall’alto, ogni odore di legna liberato dal fuoco. Cotto e mangiato, come il suono di un carillon.

Nel carillon:
Zhang Weiwei, Guo Long 张玮玮, 郭龙, Wu dou gu’er 雾都孤儿 (2012)
Zhang Weiwei, Guo Long 张玮玮, 郭龙, Liangge xiongdi 两个兄弟(2012)
Zhang Weiwei, Guo Long 张玮玮, 郭龙, Midian米店(2012)
Zhang Weiwei, Guo Long 张玮玮, 郭龙, Miaohui 庙会(2012)
...

domenica 1 luglio 2012

Del Sud

In tempi di campionati europei e nazionalismi da palco –retorica collosa buona per crisi e sacrifici-
Ecco a tutti noi la nostra nazione, gli eroi e la gloria di stato:

“Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni.
E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni ‘anti-terrorismo’, come i marines in Iraq.
Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico [...].
Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di  saccheggio delle città meridionali, come i lanzichenecchi a Roma.
E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile.
Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila». Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire». E Garibaldi parlò di «cose da cloaca».
Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna, come è accaduto con gli islamici a Guantánamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid.
Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso. Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia.
Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce) come nell’Unione Sovietica di Stalin.
Ignoravo che il ministero degli esteri dell’Italia unita cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti.
Né sapevo che i fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costruire immensi patrimoni privati.
E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera.
Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla.
Ignoravo che l’occupazione del Regno delle due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria [...].
Né sapevo che il Regno delle due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dietro a Inghilterra e Francia, prima di essere invaso).
E non c’era la ‘burocrazia borbonica’, intesa quale caotica e inefficiente: lo specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile organismo finanziario» e propose di copiarla, in una relazione che è «una lode sincera e continua». Mentre «il modello che presiede alla nostra amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in adesione a una miriade di pressioni localistiche e corporative» (Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale).
Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni di disperati meridionali che emigravano in America, per assistere economicamente gli armatori delle navi che li trasportavano e i settentrionali che andavano a ‘far la stagione’ per qualche mese in Svizzera.
Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul Lago di Como.
Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8.871), quasi sempre ancora a binario unico e con gran parte della rete non elettrificata.
Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’Inferno dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie, stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi speciali, stadi d’assedio, lager? E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a milioni (e non era mai successo)?
[...]
Credevo a Giosue Carducci delle Lettere del Risorgimento italiano: «Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento di tutte le parti sane del popolo». Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e Informazione a cura del ministero della pubblica istruzione direzione generale per l’educazione popolare, dal 1964. Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un secolo di distanza (...), la revisione critica operata dagli storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate (...) della più complessa realtà del ‘libero censimento’ al quale si riferisce il poeta». Chi sa, capisce; chi non sa, continua a non capire [...].
Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi.”
...

da Pino Aprile, Terroni, Milano: Piemme, 2010.
  

Canzoni del mese:

Briganti di terra d’Otranto, Core schiattasu
Ghetonia, Kalì nifta
Eugenio Bennato, Ninco Nanco
Zimbaria, Le sei menu nu quartu
Menamenamò, Menamenamò
Tommaso Zuccaro e Salentucantu, Tristezza cantu
Orchestra popolare italiana,

venerdì 1 giugno 2012

Quello che devo fare

 Quello che devo fare. Atto, movimento. Contro chi la sovversione la pensa e la immagina, chi la rigira, la trastulla e la teorizza: “I due apprendisti sono furiosamente al lavoro, nella grande stamperia di messer Hergott in Norimberga. Le mani trasformano l’inchiostro sulla semplice carta in caratteri di piombo che moltiplicano le parole. Rapide occhiate e dita agili che ricompongono gli scritti del Magister: proiettili che verranno scagliati in tutte le direzioni dal più potente dei cannoni. Il torchio, nell’angolo, sembra dormire in attesa di imprimere il sugello finale.”
Thomas Müntzer, gli anabattisti di Münster, l’editoria italiana di metà XVI secolo. Così come si potrebbero dire anche Wat Tyler, Jan Hus, György Dózsa, Juan Bravo, Matija Gubec, Ivan Bolotnikov, Masaniello, Sten’ka Razin, Yemelyan Pugachev, José Gabriel Condorcanqui, Christian Benjamin Geißler, Toussaint Louverture, Teodor Avramović, Pasquale Domenico Romano, tanti altri, quanti altri ancora e tutte le lacrime di lotta lasciate in disparte dalla storia. Sotto i colpi della tortura e della privazione.
La storia, storia del potere.
"Noi solchiamo i meandri della storia. Noi siamo ombre di cui le cronache non parleranno. Noi non esistiamo."
Chi li scrive i libri che vengono insegnati, che tradimento diamo alla memoria indicando i buoni e i cattivi. Chi la fa la storia, la storia siamo noi, bella ciao che partiamo? “Nell’affresco sono una delle figure di sfondo. Al centro campeggiano il Papa, l’Imperatore, i cardinali e i principi d’Europa. Ai margini, gli agenti discreti e invisibili, che fanno capolino dietro le tiare e le corone, ma che in realtà reggono l’intera geometria del quadro, lo riempiono e, senza lasciarsi scorgere, consentono a quelle teste di occuparne il centro.”
Parlami di come si scende in strada fuori dalle università, di come gli intelletti incontrano la fede e di come si può essere incuranti di tutto il resto. Dimmi degli schieramenti e le loro ragioni, di chi sceglie la protezione e di chi antepone il rischio del fango e della sconfitta. Raccontami chi non rinnega mai a se stesso ciò per cui ha combattuto perché la sconfitta non rende ingiusta una causa, dell’istituzionalizzazione delle rivoluzioni. “Avete conosciuto le lettere e le armi. Avete combattuto per qualcosa in cui credevate e avete perso la causa, ma non la vita. Capitemi, parlo del senso della vita che accomuna gente come me e come voi, l’incapacità di fermarsi, di accomodarsi in qualche buco, in attesa della fine; l’idea che il mondo non è che una grande piazza su cui si affacciano i popoli e i singoli uomini, dai più scialbi, ai più bizzarri, dai tagliagole ai principi, ciascuno con la sua insostituibile storia, che racconta già la storia di tutti. Voi dovete aver conosciuto la morte, la perdita. Forse c’è stata una famiglia, da qualche parte, lassù nelle terre del Nord. Sicuramente molti amici, persi per la strada e mai dimenticati. E chissà quanti conti da saldare, destinati a rimanere aperti.”
Come fate voi a uscire dal cerchio senza disegnarne un altro, insegnami cos’è l’anarchia.
“In questa vita ho imparato una cosa sola: che l’inferno e il paradiso non esistono. Ce li portiamo dentro dovunque andiamo.”

Liberamente integrato con: Luther Blisset, Q (Einaudi, 2000)

lunedì 28 maggio 2012

Cerveteri

L'età della transizione - V tappa


Alla Banditaccia popolo di scavatori. Vie nel tufo tra tumuli, un altopiano scavato e terra strappata, vegetazione fitta a ricoprire la memoria e consegnare alla pace. Popolo di un metro e qualcosa, in miniatura, dipingevano terracotta alla maniera greca. Poco altro, la pioggia mi ricaccia indietro, un altro buco nell’acqua, cacciatore di respiri che resta con la polvere in mano. Ancora l’ombra di morti di migliaia di anni fa, solo ombra ridata alla natura. Dalla terra alla terra, fin dentro alla terra. Tutt’uno con la terra. Terra e acqua.
...

sabato 12 maggio 2012

Cara è la fine

Ti ho rivista.
Era come ieri, sai. Senza lo sporco che ci siamo lasciati addosso, di lacrime, silenzi e bugie. Eri come allora, ma avevi una casa nuova, grande. Con il tuo compagno di musica e di vita. Chissà, forse in Toscana. Apri la porta, e l’aria è sorpresa, il silenzio imbarazzato. No, non è vero. Apri la porta ed è come se così sempre fosse stato, il sottile piacere di ritrovarsi, il sorriso di chi sa che sarebbe stata la cosa più naturale che potesse accadere, ritrovarsi. Ed è stato naturale parlare, recuperare il tempo perduto e gli anni persi di vista, riscoprirsi gli stessi di sempre. Di quando ascoltavamo serrande alzate (tu), e poi il buio (io), malinconica e –sempre e comunque- Nuotando nell’aria (tutti e due), anche se quella era venuta prima (quando io sentivo quante volte di Claudio Baglioni e tu Mina, Anna Oxa perché la Oxa ha una bella voce). Un album almeno lo abbiamo condiviso. Chissà cosa ascoltiamo ora, in questo tempo insieme senza spazio strappato alla coscienza. Ed è stato naturale baciarti anche se avevi un compagno e io –al di là del tempo senza spazio- fossi già sposato. In un bagno che era riparo di candore. Senza sensi di colpa, come se fosse qualcosa di appartenente al passato. Fare quell’amore che non mi hai mai dato come una passante di De André. Come una visione univoca staccata dalla realtà, come uno strascico, un altro punto di vista a sommarsi in quella storia già intrisa e inzuppata di io e di spazi individuali(sti).
Vorrei riprendere a suonare la tua voce. Lasciare la tua voce prendersi lo spazio. Sulla Riviera di Ponente, dalla Riviera di Ponente in poi. Cercare un’illusione con pezzi di vetro, l’unico pezzo che abbia mai studiato con la chitarra e ci sarà pure un motivo visto che di De Gregori non mi è mai importato un granché. Non saprò mai come è mai possibile riuscire a tradire, mentire, essere tradito, essere ingannato dal primo amore. Così bianchi così sporchi, proprio come i bambini. Non saprò mai come è stato possibile incontrarti a sedici anni, ritrovarti a diciotto e poi ancora a venti o giù di lì in uno scenario decontestualizzato e naturale. Non saprò mai come mai è stato possibile perdersi così. Non tanto perdersi, ma perdersi così e ripensarci dieci anni più vecchio. E in questo spazio senza tempo ricordo quanto ti ho amata e quanto avrei voluto amarti, quanto ti sto amando e quanto non ti ho mai dimenticata. Al punto da non volermi alzare per iniziare il mio non-lavoro.

Soundtrack:
Micah P. Hinson, While My Guitar Gently Weeps, 2009 (cover).
Bon Iver, Michicant, 2011.
Matt Elliott, Dust, Flesh and Bones, 2012.
Fabrizio De André, Vinicio Capossela, Valzer per un amore, 2011.
Franceso Guccini, Canzone delle domande consuete, 1990.
Francesco De Gregori, Pezzi di vetro, 1975.
Claudio Lolli, Io ti racconto, 1973.
Marlene Kuntz, Nuotando nell’aria, 1994.


domenica 22 aprile 2012

Lüxingzhe (旅行者)

Zai lushang (在路上), Yuanfang (远方), Xibei (西北).
Quello dei lüxingzhe non è un gruppo musicale ma un percorso incrociato di musicisti, con un immaginario scarno, essenziale ma ben definito. D’altronde non potrebbe essere altrimenti se si parla di mínyáo (民谣): yáo come rock, mín come condizione di essere tra la gente. Un genere –il neo folk cinese- con pochi punti di riferimento a delineare orizzonte e scenario. Pochi elementi, ad esempio la strada. Quella del viaggio verso luoghi lontani. Fatti di genti diverse, dalla città alla prateria. Di suoni inusuali, di strumenti desueti trasmessi da tradizioni. Viaggio. Nella memoria, verso le origini. Spoglie di elucubrazioni, suppellettili e sovrastrutture. Viaggio. Alle origini dell’uomo e alle origini come individui. Canti di uomini arenati nelle metropoli in cerca di lavoro e caduti nell’emarginazione socio-economica, esiliati a rimpiangere fiumi e stagioni. Viaggio a ritroso, di nostalgia e memoria elevata, innalzata, sublimata. Geografico, verso il Nord-Ovest, praterie deserti di loess montagne altopiani campagne. Mongolia Ningxia Gansu Tibet Turkestan.
Lüxingzhe (旅行者), i Viaggiatori.
Ruotano intorno a Wu Junde, classe ’72, un trascorso tra alcune delle realtà di maggiore spessore della musica cinese (Shetou, IZ, Hanggai) e un progetto attivo dal 2008 che intreccia collaborazioni con diversi artisti: Xiao Zhou, Zhou Laoda, Zhou Shengjun, Wubuli, Zhang Zhi, Wen Feng, Chen Zhipeng, Zhu Fangqiong, Wan Xiaoli, Hugejiletu, Da Song, Wang Xiao, Ciren Yangji, Malika, Xiao Hai, Adili, Zhou Sheng, He Xi, Zha Yang... Toccano corde ed etnie diverse, foggiando forme per società contemporanee. Ci leggo potere evocativo e osservazione della natura umana, rileggo me stesso nella diffusione di un suono nei cieli delle terre alte. O nelle cavità delle metropoli, con echi di uomini alla ricerca di luoghi che forse esistono forse no, forse erano forse non sono più, forse non sono mai stati se non nei sogni e nella cecità. Un misto di esotico e radici sociali, ricordo appassionato e tradimento di se stessi, immagine di libertà e nuvole. Nuvole e strada. Vento lontano di luoghi lontani, ancor più lontano di luoghi lontani (远在远方的风比远方更远).
Non so più se è il canto di un uomo che cerca la sua terra perduta, gli odori e i fiumi; o sono io ad avere perso una terra e le sue voci.

Non ti ho mai conosciuta
E non ho mai conosciuto neppure me stesso
Ho solo un cammino senza sosta
Solo una ricerca senza fine
Il sole si leva e di nuovo discende
L’amante è giunto da lei e di nuovo è andato via
Ho solo un cammino senza sosta
Solo una ricerca senza fine


我从来都不认识你
就像我从来都不认识自己
我只有不停的走啊
我只有不停的找

太阳升起来又落下去
爱人来了她又走了
我只有不停的走啊
我只有不停的找


Mini playlist:
Lüxingzhe 旅行者, Lüxingzhe 旅行者 (2010)
Lüxingzhe 旅行者, Shengming zhi lu 生命之路 (2010)
Xiao Zhou e Lüxingzhe 小舟, 旅行者, Gudu de ren 孤独的人 (2010)
Xiao Zhou e Lüxingzhe 小舟, 旅行者, Fangmu guniang 放牧姑娘 (2010)
Zhang Zhi e Lüxingzhe 张智, 旅行者, Liulangzhe 流浪者 (2010)
Zhang Zhi e Lüxingzhe 张智, 旅行者, Mukulian 木库莲 (2010)

domenica 15 aprile 2012

Cerca nella sabbia i miei reperti, porta alla luce questi fossili ricordi*

.
难过 意思是再难也要过去 难受 就是再难也能承受

21 marzo 2012. Ventuno caratteri, sette giorni prima di morire. Parole scritte per chi rimane. Per il lusso e l'assenza, per i giorni da spendere nell'aria e nella polvere. Scuoto ripetutamente la testa per cacciare via l'idea, l'immagine, il pensiero. E' impossibile concepire quanta gente ti ha amato in questi mesi e contemporaneamente quanto sei stato solo. Perché in fondo eri irraggiungibie per tutti noi.
Ovunque tu sia, in qualsiasi forma, qualunque aspetto tu abbia, quale sia la tua essenza in ciò che è senza tempo spazio e dimensioni.
Che ci siano piatti da lavare per contraccambiare un invito.
Che possa persistere in te un pezzo di memoria della vita su questa terra di malattia.
Per gli uomini che siamo, per l'uomo che sei stato, per le vite condivise.
Il significato della difficoltà è che per quanto difficile bisogna andare avanti lo stesso. Quello della sofferenza è che per quanto difficile è pur sempre possibile resistere. Quanta vita può insegnare un uomo vicino alla morte da un letto di un ospedale.

Canzone del mese:
* Acid Folk Alleanza, Fossili (1996)

giovedì 5 aprile 2012

Milano

L'età della transizione - II tappa (a ritroso)


Io ti racconto città in bianco e nero. Di stile come il bianco e nero. Del Nord in bianco e nero. Piazza, bella piazza. Gremita nei due sensi, botteghe su botteghe negli ampii viali dipanati commerci di gusto. Gente abbigliata e truccata, davanti a uno specchio. Con ciglia lunghe. Me la lascio alle spalle mi lascio inghiottire lontano dagli echi di strada tra ombre e vetrate cupamente dense. Gotico, l’apoteosi del sacrificio. Non sono qui per questo. Sono in caccia. Fuori, la strada. Mappe tracce foto palazzi strade odori e fiuto, cazzo quanto tempo è passato. Le stesse vie avevano forme diverse una volta. O sono io, è nella mia mente il problema. Quegli stessi pavimenti rossi, gli stessi tram. Non è rimasto niente, né rose né odori. Siamo stati sommersi, non fumo neanche più ora, di sicuro non ho più grandi ideali. Non sono qui per questo. Sono in fuga, da lei e da Brera. Respiro. I Navigli, terre e acque esilio dei falliti artisti falliti innamorati. Piatto come l’acqua di città. E ponti, sollievo. Sono in fuga, dalle chitarre dalle stazioni da cosa ormai non lo so neppure più. Dai fantasmi.
...

giovedì 29 marzo 2012

Matera

L'età della transizione - I tappa (a ritroso)



Vespro. Febbre, dobbiamo fermarci. Luci. Città. Discendiamo la strada che ormai è notte. Città. Spianata sotto gli occhi. Scoscesa su un costone di fiaccole e rocce. Aspra. Austera. Povera. E fuochi oltre la montagna, scavati nelle grotte. Uomini, donne, le loro torce lungo la mulattiera in processione verso una fede proibita. Dimentichi dell’elemosina strappata giorno dopo giorno alla natura e alla vita. Per una notte, in fila per assistere alla nascita. È un luogo d’altro mondo, mondo lontano. Nascosto.



Mattino. Mi reggo ancora sulle gambe. Asino. Polli. Bestiame. Puzzo sudicio. Sospingo i passi oltre la soglia, tutto ha una forma alla luce del giorno. Montagna scavata erba bassa secca lapidata dal vento nuvole nere in successione aprono squarci di sole. Centinaia. Centinaia di buchi nella roccia, riparo per uomini e bestie. Portati via alla roccia. Potrebbero sembrare antri ignoti dove non è consigliabile inoltrarsi. A me sembrano luoghi lasciati in pace dove condurre la propria lotta di vita.



Domani. Hai mai sentito scorrere il vento hai mai camminato su una cresta hai mai visto cielo e terra. Gli asini. I loro occhi d’uomo. I pastori del Sud, pelle ruvida. Eremiti d’un credo d’Oriente. Lì per lì, mi è sembrato quanto di più simile alla libertà potessi immaginare. Un paradosso, non c’è dubbio. Naturale, in realtà sono schiavi della terra. Sì, deve essere così. Eppure...
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lunedì 26 marzo 2012

Ostia antica

L'età della transizione - IV tappa



Brusii. Di un carro. Alle spalle, in avvicinamento. E cavalli, zoccoli, sulle lastre in pietra e tra i silenzi della necropoli. Mi superano e proseguono. Più avanti. Una porta, con mura intorno. Berciare confuso, città di mare, sbraitio e brulicare umano. Come hanno fatto a dominare il mondo, visti da vicino sembrano solo una massa come tante, ignorante. Cammino in cerca di una foresteria. Terme, mercato, i loro dei. Teatro, ne avete costruite di cose. Rimarranno solo rovine e memoria mistificata. Non che sia poi così male, siamo pur sempre uomini, voi imperiali come me. Di passaggio.
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giovedì 8 marzo 2012

Monte Soratte

L'età della transizione - III tappa



Mentre poggio il passo. Montagna empia di soldati, albero cavo pieno di acciaio. Eremi in dimenticanza, su una via oltre le nuvole, alberi fitti e bosco. Respiro fondo di donna madre -dalle interiorità- ansimare di terra e acqua.
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venerdì 24 febbraio 2012

Com'eravamo

È vero che la resistenza, la guerra, la ricostruzione appartengono al passato come fosse un libro di storia a parlarci di echi indistinti.
È vero che non sappiamo cosa ha significato e non ci interessa poi neanche tanto acoltare i vecchi, le rughe i suoni di quell’epoca. Come fossero parte ormai di musica folk.
Che poi ci dicono la memoria, la memoria. Ci coprono di giornate del ricordo usa e getta, da smaltire con il ricordo del giorno dopo in perfetto stile uso consumo.
Mi chiedo se è davvero così tutto diverso, l’Italia del 2012. “E la guerra non c’è più ormai, la guerra è finita”.
È vero che l’anticapitalismo, l’egalitarismo fanno tenerezza ridicolo e malinconia. I sogni sono della gioventù, ci pensa la società a raddrizzarli. E chi è uscito dalla guerra con l’animo rotto, incrinato o scalfito come fosse alba è gioventù. E noi? Noi, i loro figli e nipoti, paradossalmente, gli adulti. Almeno in rapporto all’età dell’essere umano, se si può essere più adulti dei propri genitori.
Il partito sovietico, quello cinese. La sinistra italiana. Sono peggiori del peggior berlusconismo. Ci hanno privato di ideali come il peggiore dei traditori. Costringendo in società che non ammettono immaginari alternativi. Sbilanciando l’alternanza tra sogno e cinismo. Svilendo il valore della terra, della piazza e della strada, abusando del popolo e del suo nome mentre si adagiavano al valore umano dell’arricchimento e dell’accumulo.
Tra idealismo e realtà, dove la distruzione è condizione dell’idealismo, che si fa presupposto del realismo, da cui scaturisce il distacco dal sogno e nuova guerra.
Che forma avrà amore mio, che nome idolatrerà questa esplosione e sopravviveremo per guardare nuovi giovani lambire nuovi sogni come architetture esteticamente appaganti.
Che nessuna guerra è giusta ma ogni guerra è così umana, almeno quanto l’amore.
È vero che in questi momenti vorremmo essere come nomadi.

Ascolti del mese:

Claudio Lolli, Ho visto anche zingari felici (1976)
Claudio Lolli, Donna di fiume (1975)
Claudio Lolli, La giacca (1973)
(e per inevitabile spiazzante contrasto): Baustelle, Il liberismo ha i giorni contati (2008)
(e se questo libro fosse canzone): Luther Blissett – 无名, Q (2000)

martedì 31 gennaio 2012

Storia di un amore

Amure mio, a vita è n'estate lassa stari i corvi lassù
ca nun c'è Dio ma c'è un cantu di streghe
e n'tu lettu c'è un diamante che ho nascosto e u poi pigghiari sulu tu.


Cos’altro dobbiamo dirci, è storia d’amore finita. Cambiata, trasfigurata, recitata da rapporto professionale. No, storia di reincontro tra amici, tra birra e vino. O di una cena spesa a osservare e capire. Merda, non ricordo più. Rabbia? Tenerezza? Di un innamorato abbandonato?
Ansia, quella sì. Da prestazione? Da attesa di giorni sgranati come perle di rosario?
E torno a chiedermi cosa c’entrasse Roma e cosa siano stati quei silenzi e quei giochi di coppia e di complicità, siamo uomini in fondo (“ed è questo che ci salva”?).
Chino il capo.
Ma non ci sto e ritorno su, trastullo, frugo, scompiglio e riordino. Inutilmente. Io, io, io, io, cadute di stile e ricadute nell’io. Così umanamente staccati dal punto di osservazione analitico (ed è questo che ci rovina?).
I giochi d’amore e pena sanno essere sottili, dosano gentili attenzioni e schiaffi amplificati dagli echi delle emotività, difficili da catalogare. E allora bevo e guardo su tutti i balconi, ma non è notte di streghe.

Non so da dove siate usciti fuori alla fine, mi portavo dietro quel respiro pesante da mesi, ed è cresciuto di strada in strada. Muri di carta ricreati ad arte e stelle appese a fili che sbucano dal soffitto a forma di cielo. Mi hai parlato di un treno verso il mare dell’Est, mi hai fatto ricordare di avere scritto un libro e di avere esposto una linea di pensiero davanti qualcuno. Ma chi sei tu, con quel volto indefinito? Che ricordo sei?
Di uno, cento e cento amori. Di quegli amori avvolti dal fumo e dimentichi di Dio; metropoli estranianti e familiari, ridenti incoscienti e scoscesi. Così... giovani. Sogni e delusioni, ascensioni e scenate. Corpo su corpo, piumini inspessiti dagli inverni rigidi, che fuori c’erano neve e calzamaglia. Respiri da odorare a occhi chiusi perché quando li riapro in realtà sono distanti.
Non so quanti giorni mi rimangono da vivere, con questo fisico intatto con il pensiero rivolto alla morte.
Quasi non posso pensare di esserci passato sopra davvero. Così, spalla spalla a un ideale, e vitale senza stremo, sulla strada verso Nord o verso Ovest ai bordi del confine. I minimarket 24 ore su 24 puntualmente di notte ero lì per una mild seven in più o per i gelati o per tutti e due. O solo per le insegne luminose dopo il calore di folk e grappa. Non so come sia riuscito a non tremare quando mi ritrovai con quel registratore in mano, la prima volta. La prima volta che lo abbiamo fatto, avevamo appena litigato fino a non parlarci più per un’ora e mezzo di metro e bus. Non ricordo il motivo, solo il silenzio. Mi sarei potuto innamorare di tutti voi, personaggi di una storia persone reali.
Ed è finito.
Per il silenzio su cui ho sbattuto e che ho scolpito per versare lacrime virtuali in assenza di tempo e percezioni di spalle.
Per amorevole compassione.
Per idiozia.
Per ambizione.
Perché dalle giostre scendo sempre per secondo.
Perché forse torno indietro ma in fondo è impossibile ma non so ancora guardare abbastanza avanti.
E mi cullo, mi cullo nel passato col sapore de sogno. Capace di vederli sbucare a Roma, uno per uno. Non dormirci la notte, non trovare le strade, ostentare self control, odiare et amare, bere insieme un goccio in più.

Amure mio, a vita è n'estate lassa stari i corvi lassù
ca nun c'è Dio ma c'è un cantu di streghe
e n'tu lettu c'è un diamante che ho nascosto e u poi pigghiari sulu tu.


Canzoni del mese:

Fabrizio De André, Il suonatore Jones (1971)
Alessandro Mannarino, La strega e il diamante (2009)
Zhang Zhi e Lüxingzhe 张智, 旅行者, Liulangzhe 流浪者 (2010)
Zhang Zhi e Lüxingzhe 张智, 旅行者, Mukulian 木库莲 (2010)

mercoledì 11 gennaio 2012

Nuvole, zio

Perché quella foto lassù non ci può stare, pensavo. In quella fila di lapidi a schiera su più piani.

Perché disarmonica perché quel dolore disarmonico
incrinatura stonata
tra noi famiglia di buoni valori e sentimenti
aspettative semplici
secolari quanto l’uomo.

Due mesi fa, di già.
Siamo cresiuti protetti, con vestiti puliti e giocattoli nuovi. Con padri e madri, disabituati al significato insito, minimale, essenziale della sofferenza.
Ed ero là, non potevo piangere perché non avrebbe mai accettato di vederci sedere di fianco al suo cadavere inanime così a lungo. “Chissà quante risate si sta facendo lassù”, dice la figlia di un padre per scacciare la paura dell’assenza o per dare un atto di fiducia nella vita. O di fede nel Dio.
Avrei dovuto consolare, forse, ma non potevo neanche parlare, non ho da dire mai nulla davanti alla morte. Ogni conforto è un inganno, ogni frase un appiglio per distogliere la mente dall’unica cosa che desidero di fronte alla morte: il ricordo.
Sono di nuovo due mesi che non fumo, un impegno alla memoria. Tra me e me, da me a me passando per un’ascensione in cerca di destinazione senza arrivare.
Un malessere diffidato e sminuito, controlli, ricovero. Un ospedale che sembra un centro commerciale. Le dimissioni, con bombole d’ossigeno ma con una voglia nuova, priva di paura. Sembravano rinascere insieme, tutti e tre: padre, madre e figlia. Insieme mi sembravano una prova in grado di smentire la credenza secondo cui la famiglia altro non sia che un retaggio cristiano. Di per sé, con il loro solo essere. Lievi peggioramenti, un giorno rimandato e atteso che doveva essere festa e si tramuta nell’esibizione pubblica di un dramma. Sguardi compassionevoli, allarmismi in giacca e cravatta, a mezza bocca sul bordo di una piscina. Da lì in poi neanche due settimane, un nuovo ricovero, la telefonata, due giorni di stazionamento, l’inevitabile.
Mi piaceva immaginarlo, pensarlo senza distogliermi mentre ero in sala di attesa. Avrei evitato l’ultima visita in vita, mi veniva da urlare di darmi indietro mio zio, ma era lì davanti ai miei occhi, era il suo corpo che stava cambiando. Dov’era l’ossigeno, pensavo che il respiro fosse sintomo di vita ma non è così, anche chi non riesce più a respirare ha dentro voglia di vivere in sovrabbondanza.
Che ci fanno questi uomini davanti a una chiesa, che ci fa questo prete davanti a un altare a parlare di uno sconosciuto che amava, odiava a prescindere da Dio e quando poteva manifestava miscredenza. Parole a suscitare indifferenza. Aveva paura della morte ed è morto, che ci fa la sua foto fra tutte quelle degli altri al cimitero.
Perché quella foto lassù non ci può stare, penso. Perché quando sposterò la scala metallica, salirò sui gradini, poserò i miei occhi su quella foto, perché –penserò- che ci sta a fare lì il mio secondo padre.

Canzoni del mese:
Amor Fou, Filemone e Bauci (2010)
Neil Young, Heart of Gold (1971)