giovedì 9 agosto 2012

L'andatura delle onde

 È bella la ‘pacienza’ in napoletano perché mette un po’ della parola pace dentro la pazienza.
Non lo mette nero su bianco Erri De Luca, ma seguendo la cadenza della scrittura di Tu, mio sembra volerti dire che guarda alla pazienza come a una virtù, raramente conclamata ma costantemente presente. C’è pazienza nell’imparare a “maneggiare l’arte” della pesca, nell’apprendere l’amore e la virilità, nel godere della giovinezza e nell’ascoltare la storia. Quasi contemporaneamente leggevo Tabucchi, il classico Sostiene Pereira. Distante di lontananze stilistiche, votato alla sintesi e alla semplicità dell’animo umano, mentre De Luca va a frugare nella sua complessità e nelle sfumature. Però sono due libri che si riuniscono altrove, forse anche nella pazienza, voglio dire nell’andamento. Libri di mare, scritti con lentezza. Come un respiro profondo fatto con l’intelletto al sole più che con i polmoni.
Poi nella presenza della storia: da una parte il ricordo immediato della guerra, il giorno dopo; dall’altra l’attesa preparatoria della guerra, il giorno prima. In Tu, mio la guerra è messa da parte (dagli uomini, ben inteso, perché la guerra in sé non vuole essere dimenticata né si lascia dimenticare). Il giovane protagonista che prova a capirla –solo tra tanti ragazzi- non riesce però a conoscerla fino in fondo, finché non ne diviene partecipe in prima persona, seppure con anni di riardo. La memoria può riprodurre l’immagine della guerra su un libro o su una foto, può renderne il suono in un racconto di un sopravvissuto. Ma la guerra chi non l’ha vissuta non sa che cos’è. Rievocazioni, giornate della memoria... è quel che si può fare per ricordare, ma non ci aiuteranno a evitare nuove guerre, perché così è l’uomo di fronte alla storia: le ferite sui corpi si trasmettono sulla pelle dei figli, ma si attenuano su quella dei nipoti e diventano racconto avvincente nell’immaginazione dei pronipoti.
In Tabucchi invece la guerra è nel timore, anzi nella coscienza della tragedia in preparazione. Siamo alla fine degli anni Trenta, a Lisbona gli echi del nazismo sono distanti, meno quelli del franchismo. Il conflitto è nel dilemma della scelta, tra una vita normale sempre più difficile da condurre e l’accettazione della realtà, seguito dall’atto di eroismo destinato al sacrificio. La genesi dell’azione passa per il grottesco, quello di un giornalista che cerca notizie da un prete o da un cameriere (Pereira gli chiese cosa gli era successo e padre António gli disse: ma come, non hai saputo?, hanno massacrato un alentejano sulla sua carretta, ci sono scioperi, qui in città e altrove, ma in che mondo vivi, tu che lavori in un giornale?, senti Pereira, vai un po’ a informarti), ma di fronte alla morte violenta di un figlio –desiderato, mai avuto, sempre immaginato e ricomparso nelle sembianze di un neolaureato in filosofia, innamorato e idealista- di fronte alla morte di un figlio in guerra la scelta non può aspettare: l’abbandono torna a essere vita e atto eroico.
È un bel tipo Pereira, l’ideale di persona che vorrei essere se dovessi mai riuscire a raggiungere i sessanta, davvero un bel tipo. Con o senza atto di eroismo. La sua scelta non è facile: dovrà passare attraverso la privazione della libertà di espressione, una riflessione sul pentimento, confusione interiore e molti incontri. Con due giovani idealisti senza futuro, con ebrei e intellettuali in fuga, o con intellettuali allineati, con dottori a spiegare la complessità dell’inconscio. Ma più che la scelta finale mi intriga il percorso all’interno di una società proto-fascista condotto da uomo qualsiasi, solo, abbandonato alla vita dalla morte della moglie, a suo modo sereno, dotato di gusti semplici e con poche esigenze, di cui si intuisce una gioventù piena, magari anche con predisposizioni “anarchico-individualiste”, ma pur sempre votato alla cultura e non alla politica, un intellettuale poco riconosciuto, a tratti buffo e maldestro, ma aperto al confronto e alla riflessione, a tal punto da capire il dramma incombente e prendere infine posizione.
De Luca e Tabucchi ci dicono che la gente insomma tende a far finta di niente davanti alla guerra, a malcelarla e sminuirla sia prima del suo scoppio, quando cova, sia dopo la sua fine. Prima la si nascondeva dietro a un dito, alla paura o alle manìe di grandezza, a seconda dei casi. Poi dietro alla vergogna: Ero la sola persona cui interessavano quelle storie. Dopo la guerra i vivi avevano indurito il silenzio, un callo sopra la pelle morta della guerra. Volevano abitare in un mondo nuovo.
E chi vuole conoscere la guerra deve imparare prima a non ascoltarla passivamente e poi ad accettare di non averla vissuta, perdendo almeno in parte la possibilità di capirla. Infine la devi accettare senza desiderio di volere ripristinare la giustizia cercando la vendetta. Perché, come scrive Erri De Luca, il passato è così, non si può correggere. Perché i soldati italiani sono stati i nemici di gente comune, perché una volta che i soldati tedeschi sono diventati i nemici anche loro sono caduti gridando aiuto. E dopo averli visti da morti, ll’odio se pure l’hai tenuto in corpo non ci sta più.

venerdì 3 agosto 2012

Tempi di scelte e ribellioni anonime, da uomo qualunque


Mi sono licenziato. Cosa perdo: stipendio. Cosa trovo: sottili libertà. Cosa facevo: per alcuni sarebbe stato più corretto dire cosa ‘non’ facevo. Perché il mio era uno di quei lavori inutili, che ti vergogni a dirlo quando te lo chiedono. Aiutavo delegazioni di enti pubblici cinesi a venire in Italia per brevi visite e incontrarsi con enti pubblici italiani. I cinesi viaggiavano con soldi pubblici e per entrare avevano bisogno di un visto (cioè di una lettera di invito da parte di un ente pubblico italiano) e di un incontro di facciata (al ritorno in Cina avrebbero dovuto portare delle foto a dimostrazione che erano andati in Italia davvero per lavorare). Gli statali cinesi stavano in Italia per 4-5 giorni (Venezia-Milano-Firenze-Pisa-Roma) e incontravano un ente per due ore, il resto vacanza. Gli statali italiani tentennavano prima di firmare le lettere di invito (se poi i delegati cinesi fossero immigrati clandestinamente ci sarebbero state responsabilità penali) ma quando arrivavano le delegazioni potevano perdere una mattinata di lavoro d’ufficio a stringere mani, scattare foto e accumulare racconti da rivendersi la sera a cena. Facevo questo in nero, perché di tutti i curriculum che ho mandato questo è stato l’unico posto con uno stipendio vero offertomi e ora ho una moglie, vorrei affittare casa e fare un figlio. L’ho fatto impegnandomi molto e cercando di vedere se riuscivo a sviluppare contatti più duraturi rispetto ai canoni dell’azienda. L’ho fatto per un anno. Ora ho deciso di finirla qui e di non prendere più in giro nessuno, incluso me stesso. Sono teso per il futuro, forse riuscirò a sentirmi anche liberato una sera di queste. Non riesco ancora a capire, in tutta questa storia, cosa avrei dovuto fare per dimostrare a me e a chi mi gira intorno di avere senso di responsabilità. A breve partirò e al ritorno cercherò di capire. Capire se esiste una strada che potrei percorrere per guadagnarmi da vivere senza fare cose inutili in nero. O se quelli come me non hanno granché da dire nel mercato del lavoro contemporaneo.

Album di giornata:
65daysofstatics, The Destruction of Small Ideas (2007, dall’inizio alla fine tutto d’un fiato)

giovedì 2 agosto 2012

"Luglio suona bene" - Parte III


Cronache dalla cavea, dal laghetto di Villa Ada e dal Circolo degli artisti. Beethoven, Madredeus e Will Oldham più band, tutto in una settimana. Musica e cultura sono tornati nella mia vita, vissute in modo un po’ troppo solitario, ma è pur sempre un punto di ri-partenza.

Si dice che sia stato un attore. Su Will Oldham ho raccolto poche notizie, ma lo ascolto da qualche anno, seguendo alcuni dei suoi tanti, troppi progetti. Il suo nome ritorna, sempre, con costanza, accanto a musicisti che apprezzo e a forme musicali che sento di amare dal 2009-2010 o giù di lì (sempre con i miei ritardi, non sarei un granché come interprete di nuove tendenze musicali di nicchia, ma mi piacerebbe capirne eccome se mi piacerebbe...). La cosa che lascia stupiti è che dietro al 90% dei nomi che sembrano interessanti e in cui uno si imbatte mentre è in cerca di cantautori ci si potrà trovare lui e sempre lui, la sua mano o la sua partecipazione; per il folk dell’ultimo decennio, mi viene da pensare che la sua funzione possa essere vicina a quella di Ben Gibbard per quel filone indietronico-folktronico-glitchpop chi più ne ha più ne metta di inizio Doppio zero: dovunque vai a grattare ci trovi il buon Oldham a cantare in prima persona, a collaborare, a suonare o a produrre... Di lui si parla come di un abile scrittore di liriche, ma finora non ho mai avuto la dovuta pazienza da dedicare ai suoi testi. In realtà non saprei neanche indicare le sue migliori canzoni, però lui nella mia quotidianità c’è, con incisioni ascoltate con abituale costanza, a riecheggiare gran parte degli stati d’animo che mi contraddistinguono da tre quattro anni. Le scelte di Sorrentino hanno consolidato le mie buone convinzioni nei suoi confronti, il suo personaggio di personalità ha continuato a incuriosirmi fino a creare attesa per una sua esibizione in Italia. Ho saputo della sua data romana per caso e con tre giorni di anticipo, dopo aver già speso decine di euro in eterogenee attività concertistiche e con l’impegno -già preso- per andare a vedere di lì a pochi giorni anche il concerto di Anna Calvi. Tant’è che... vabbè, chissenefrega, tiro fuori i miei 15 euro e passa la paura. La sala non è piena, molto meno di quello che avrei potuto pensare considerando frontman e location. Il personaggio c’è, lo stile pure e anche il contatto con il pubblico. Atmosfera gioiosa nonostante la natura introspettiva di molti pezzi. Facile capire di trovarsi di fronte a una persona che sa comporre e rendere sul palco con la dovuta fiducia e la giusta forza demistificatrice. Poi attorno ha cinque buoni musicisti e ottimi controcanti. Sembra quasi che reciti delle movenze goffe sul palco, da buona anti star in grado di trascinare il suo pubblico. Nella sua musica non avevo mai dato troppo peso alle componenti country, che qui invece fanno da padrone con ironia e festosità. All’inizio quasi me ne sono dispiaciuto ma poi ho preso bene il tempo alla reale natura e tutto è rientrato nell’armonia della musica del buon Oldham. Cosicché, al momento del bis, non mi ha per nulla stupito vederelo rientrare con camicia di jeans e sopra stelle e lune rosso fosforescenti per un country in più. Un’ora e mezzo prima, mentre entravo in sala a concerto iniziato, invece sussurrava melodie con fare poetico. Mi ero appoggiato al muro: davanti a me la figura di una donna distesa lungo la parete, un’acconciatura di spalle a forma di casco, un ventaglio che staglia il calore estivo e sullo sfondo la luce verdastra che viene dal palco per riflettersi sul volto di tre quarti della sconosciuta. Un’immagine che sembrava fotografia di Christopher Doyle, forse da scattare a Kyoto o forse a Hong Kong. Chissà se Will Oldham avrebbe potuto scriverci una canzone.