venerdì 21 settembre 2012

Via Cassia

L'età della transizione - VI tappa (a ritroso)


Su strada tutta curve rigoglio bagliore di viandanti di direzioni opposte, ignoro la notte guardo dritto in fondo oltre la strada il buio le domande e il sonno dei compagni di tratta. Penso che ci raccontiamo che sì, passiamo il tempo a lasciar credere e immaginare. Che abbiamo mille impegni e cose a cui badare, quando invece è solo l’infelicità a rinchiuderci, e a estenuare la voglia di emergere e incontrarci. Come ai bei tempi. Vita di pause. Al mondo c’è chi cerca l’esperienza della vita e chi soggiace nelle pause interrotte da moti minimi, minuti.
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domenica 16 settembre 2012

Le case degli altri - Ricordo n° 1

Che il giorno dopo, nelle case degli altri, non si può ricominciare da dove si è interrotto la sera prima l’ho trovato scritto in Nirmal Verma. È successo anche a me, studente universitario, tanti anni fa. Allora stavo comodo nella vita, come fosse un pantalone nuovo. Con i miei volumi alti ad amplificare passioni esagitate da interiorizzare. L’avevo incrociata solo sui banchi di università, Anur, era bella, mi colpiva e incurvava la mia schiena costringendomi a guardarla di striscio e occasionalmente al suo saluto di passaggio. Era anche brava, studentessa brillante e curiosa, che aveva visitato continenti lontani sempre con un passo di anticipo.
Per questo non mi spiegavo come quella sera fossi potuto finire a casa sua, senza esserci praticamente mai parlati. Questa non è una storia d’amore, oppure non so, dipende da cosa sia l’amore. Odul era sdraiata sul divano e dormiva a gambe aperte. Ma nessuno le faceva caso, non ricordo neppure quando se ne sia andata. “Se vuoi puoi stare da me stanotte”. Non riuscivo a crederci, avrei voluto chiederle di ripeterlo e ripeterlo ancora, ma non sono stato così stupido e accettai di buon grado senza tradire emozioni. Fra le mie braccia stringevo una chitarra, e mi fece suonare per ore. E poi se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare. E ti piace ascoltare la voce di lei: suonare con chi sa cantare è un’altra cosa, senti l’arte passarti nelle mani.
“Ho Fame”. E allora cuciniamo di notte, quando c’è il silenzio. “Mi è venuta in mente una cosa”. E allora raccotamela, la ascolterò al riparo dai rumori della città. Ripresi la chitarra e Anur cantò ancora. Dopo le prime luci dell’alba le venne sonno. Poco importa che mi condusse nella stanza degli ospiti. Dopo essere diventati amici mi confessò che quella notte si era chiusa in camera a chiave, ma cos’è l’amore se non un sogno a volte da aspettare e a volte da consumare. Dopo poche ore mi risvegliai e non riuscii a ricominciare dalla sera prima: nulla mi apparteneva, neppure quella notte bugiarda e incosciente, sospesa tra un tramonto e un’alba qualsiasi.

Citazione del mese:
“C’è musica nel seno umano, profumo nel corpo, e sai cosa c’è nel contatto fisico?”
“Fuoco?”
“No, sbagliato, il contatto fisico è come la carezza del loto e del sonno!”
(Gopinath Mohanty, Un letto di spine)

sabato 1 settembre 2012

Montréal

L'età della transizione - VIII tappa



Aurora. Boreale, di ghiacci sciolti al calore del sole città che sorge. Sapiente. Di tendenza. Se stessa. Da McGill a Rue Milton e sempre più a Nord Est ospite di eleganze piene di vita. E quel muovere di musica cinema arte contaminate di etnie ai piedi del duemila, la normalità della lotta quotidiana per creare delle idee. Ne ho sentito solo il richiamo, ma ci giurerei. Studenti in marcia a braccia levate, ci giurerei che è vero e credevano ancora in un percorso alternativo. Grido d’amore a prima vista la coscienza di saperci stare in quella terra allo sbocco del Saint-Laurent, in una di quelle case tutte a punta e scale a coesistere con le nevi invernali e i risvegli estivi di Places des Arts.


Imbrunire. Sul bordo di un lago buddhismi di provincia americana fatti a forma di verde rosa giallo blu tonalità rigorosamente pastello legno apparenze e barbecue. Il sorriso giusto è quello a otto denti, nella Val David, e le macchine sono lunghe molto lunghe, o alte molto alte. Sarà davvero quiete la loro? Visti da dentro non mi viene da odiarli. No, davvero. Non l’avrei mai detto.


L’indomani, sole a mezzodì. È la capitale, è normale che risplenda. Di un riflesso ripulito della realtà e per questo ancor più appariscente. Cinta di mura da cavalcare. Lo Château Frontenac, semplicemente il centro monumentale, che non puoi fare a meno di averlo davanti o a sinistra o a destra della vista. Musici e artisti di strada, puoi guardare al fiume come fossi nel Settecento Ottocento mitteleuropeo. Discesa roca nella città bassa, fino al Petit-Champlain, moto di genti giunte da ogni angolo della terra ad affollare botteghe e bistrôt in spazi angusti. Sono solo di passaggio, naturale, non so stare in mezzo a tutto questo bagliore rimesso a nuovo.


Vespro attesa alba nuovo giorno consumato e ancora nuovo giorno. Vorrei che non finisse più. Vorrei fermarmi. La pioggia inonda la mulattiera tra due costoni, mi fermo arranco riprendo alla cerca del numero 12, Montée di non so cosa. Busso alle porte sento respiri tra le fessure delle assi e dei legni nessuno apre potrei crepare qui fuori. L’ultimo sforzo, quello che viene prima di un materasso a dirti che anche tu puoi farcela prima o poi. L’alba di un giorno nuovo, con sole a dare luce ai due crinali e in mezzo il fiume sono già in paradiso e sto sognando. Salgo fin su alle cime guardo all’altezza del mondo passo la mano su tronchi d’acero pini e pioppi su muschi e terra bagnata. Nuoto in acque gelate, le navigo nella quiete e nelle discese rapide. Niente è eccezionale qui, è bellezza ordinaria e per questo vorrei starci sempre un giorno in più e scoprire a ogni aurora che nell’ordinario esiste la bellezza se si è in grado di vederla.


Crepuscolo. Sporco. Altezze di palazzi soffocanti. Strade strette. Rumori e cantieri ovunque macchinari accesi, metropoli odio le metropoli. Qui si è persa la diversità, le persone parlano una lingua sola ma hanno lineamenti diversi, sono tutti di qui, del posto ma tradiscono origini lontane lontanissime, storie da raccontare che forse non conoscono neppure più. Mi chiedo se è questa la direzione dell’uomo, la perdita delle distinzioni la nascita di un essere nuovo che non è più quello di prima che non ha le sembianze dei nuovi venuti e che non ha più confini. Chissà, se saranno tutti nostri simili forse la smetteremo di combattere, ma a quale prezzo, quello della perdita della diversità. Ne ha fatta di strada il vecchio Fort York, dalle sua mura dimenticate la si può vedere tutta a chiare linee. Toronto. C’è chi dice che nella lingua dei nativi significhi ‘crocevia’. Altri –sembra con maggior cognizione di causa- sostengono che significhi ‘nassa’. Tutto torna.
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