mercoledì 7 dicembre 2011

Nomadismi, libertà e felicità

--- Qual’è per voi il segreto della felicità?
--- Noi desideriamo solo quello che abbiamo e ci facciamo guidare più dal cuore che dalla testa.

“Il vecchio detto che viaggiare tra i nomadi nelle zone isolate del Tibet è come fare un viaggio indietro nel tempo, è proprio vero [...] Spostandomi poi al seguito dei nomadi degli altopiani, lontano dalle città invase ormai dall’economia cinese, mi sono trovato immerso in un museo vivente della preistoria. Sembra un’esagerazione ma non lo è. Gli egizi, al tempo dei faraoni, avevano tecnologie, arti, culture e scienze sconosciute ancora oggi a queste popolazioni erranti. Sugli altopiani la vita si riduce all’essenziale senza alcuna interferenza tecnologica.

Insieme ai tuareg e agli eschimesi sono i popoli che ho constatato vivere in equilibrio perfetto con la natura che li circonda e in sintonia con i propri simili. I nomadi che percorrono in lungo e in largo gli altopiani desertici non conoscono violenza o ostentazione di machismo; sono un serbatoio di civiltà per tutti gli uomini. Le lancette dei nostri orologi spezzano i ritmi naturali del vivere, mentre sugli altopiani la vita è fluida e ci si muove secondo le esigenze fisiologiche con ritmi naturali. I nomadi vanno a dormire con la luna, bevono l’acqua dei fiumi, non hanno mai guardato attraverso una lastra di vetro o in uno specchio e la loro tecnologia più avanzata è rappresentata dal coltello.

Girovaghi dalla notte dei tempi, capaci di sopportare disagi e sacrifici indicibili, mai stanchi, sempre allegri, indifferenti alle interperie, sembrano impersonare le virtù fondamentali della religione buddhista: pazienza, rassegnazione e serenità. Molti di quei tipi selvatici, dal sudiciume insopportabile, nascondevano una rara fierezza spirituale.

Il progresso per questa affascinante popolazione non è l’espandersi dell’uomo verso l’esterno ma lo scendere in profondità dentro se stessi [...].

Non sono ricchi ma nemmeno poveri perché possono soddisfare tutti i loro bisogni elementari. Se siano felici non lo so, ma per tutto il periodo che ho vissuto con loro, ho visto solo volti sorridenti e da come giocavano e comunicavano sembravano avere una serenità che non ho mai riscontrato in nessun altra parte del mondo. Non avranno i nostri cinema, i computer, i teatri, le televisioni o i dvd, ma in compenso si divertono con le gare, le danze religiose, i menestrelli e i cantastorie, i picnic sul prato, le ricorrenze e le feste popolari legate allo scorrere delle stagioni.
[...] Noi ci consideriamo liberi, ma lo siamo davvero o lo crediamo? Piano piano ci stiamo consegnando, legati mani e piedi, ai produttori di beni di consumo. Primo tra tutti il grande comunicatore, la televisione, con i suoi programmi spazzatura e la pubblicità sempre più incalzante [...] Quello che conta da noi è l’arrivismo, il conseguire sempre nuove mete di arrampicamento sociale e di lavoro, comprarsi il telefonino, l’auto nuova o l’appartamento. Spesso ci si sente come dentro un frullatore sociale che ci fa girare a suo piacimento. Forse è da questa continua ed esasperata ricerca di desideri e traguardi sempre più difficilmente raggiungibili che dipende la nostra difficoltà a raggiungere la felicità. Non siamo mai contenti di quello che abbiamo. I nomadi sono talmente liberi da permettersi di mantenere la loro povertà materiale a discapito delle tentazioni che li assediano sempre più da vicino. Li si considera primitivi come se fosse una parola degradante senza sapere che loro sono vaccinati contro il progresso, motore della storia di quasi tutto il resto del mondo. Si dice che l’uomo primordiale sia nato nomade per cui l’uomo nomade riscopre la vera natura dell’uomo. Noi cerchiamo di cambiare in continuazione il mondo che ci circonda, assoggettandolo ai nostri bisogni. I nomadi invece dedicno tutta la loro energia mentale e fisica a mantenerlo come era. Perché chiamarli inferiori?
[...]”

da Massimo Di Paola, Tibet Addio, Milano: Mursia editore,2010.

Canzoni del mese:
José González, Heartbeats
José González, Hints
José González, Save Your Day
Bruno Coulais, La Mort de Lhakpa

mercoledì 26 ottobre 2011

Tra le bombe e i film

Tra le bombe e i film è caduta acqua dal cielo, tanta da scorrere come fiume inarrestato, da insinuarsi nelle crepe delle stazioni metro.
Traffico bloccato, linee bloccate. Sul sonno non speso.
Scarpe di pelle intrise, persone che si fanno calca irriguardosa. Ho sentito impotenza nell’impossibilità di spostamento, nell’attesa costretta a scapito di impegni. Ho fumato, fumato ancora e riacceso una sigaretta prima di muovere nella direzione di Testaccio.
Proteggimi dalle tua sopracciglia e dai manganelli.
Proteggimi dagli sguardi spogliati lasciati alla deriva dalla condivisione; dall’esposizione, dai ritorni su notturni affollati e addormentati, che costringono al silenzio le urla dell'animo. Proteggimi dagli amori, proteggimi dalla perdita del controllo.
Le strade erano piene, “aria di festa” avrebbe detto chi era lì. “Questo è il vostro modo di fare politica”, sorride Aamir Bashir, India, davanti a una foto con gente che ride, canta e balla in girotondo durante i disordini di Roma. Rivolta, avrebbero provato a fare credere i media di massa. Macchine bruciate, vetri infranti, uomini mascherati, assalti alle camionette, elicotteri bassi. La società ha dimensioni diverse, non comunicanti. Noi eravamo lì, nella bolla di vetro del cinema. Sigillata dall’esterno, con un pubblico ben vestito e con un tono di voce pacato, a chiedersi se è meglio vedere un documentario sui bambini che praticano boxe in Thailandia o la storia di censura di un regista iraniano condannato a un anno di carcere appena un’ora prima di prendere un volo per l’Italia. Se lo sarebbero chiesto con sguardo lontano, estraneo da quella realtà. Lo avrebbero chiesto da una platea, davanti a uno schermo.
Pochi giorni prima avevo corso. Molto, con fiato corto. Per arrivare per tempo in una copisteria prima della chiusura e foocopiare centinaia di fogli. Me lo aveva chiesto con insistenza Kim Ji-young, regista coreana andata in Giappone per dimostrare la battaglia di un candidato indipendente in corsa per le elezioni di una cittadina vittima di speculatori in collusione con la politica. “Una storia di Don Chischotte de la Mancha”, avrebbe detto nel corso del dibattito a seguire la proiezione. Ho fatto in tempo a copiare le duecento copie che ni aveva chiesto e che a me sembravano di importanza insignificante. Per ringraziarmi ha premuto perché prendessi una copia del suo dvd e le scrivessi le mie impressioni dopo averlo visto. Ho creduto di intuirne le motivazioni.
È stato il primo impatto d’amore con Asiatica, dal di dentro, e i giorni a seguire li avrei amati, pur non amando il contatto con la gente. Non ero lì per soldi ma per uno strascico di ideali lontani dalla vita vera. Un’isola che in termini sociali concreti è fatta di sfruttatamento malpagato e privo di riconoscimenti, ma pur sempre un’isola. Dove potere toccare uomini venuti da terre e percorsi lontani e nutrire, lasciare intendere sentimenti condivisi. E allora tenetevelo il vostro cazzo di giro infinito di soldi e finché bastano a vivere lasciatemi le emozioni. E sti cazzi se ci mangiate sopra, se vi ci incazzate e se ci fate pace, se avete o non avete i soldi, perché tanto parleremo sempre due lingue diverse senza voglia di ascoltarsi.
Ero in una vasca.
Amavo immergere lentamente la testa, dapprima i capelli, poi le orecchie, la bocca, gli occhi e il naso. Amavo il passaggio dalla percezione all’assenza dei sensi. Avevo quindici o sedici anni.
All’uscita del Macro ho creduto di estrarre la testa dalla vasca, e capire che in strada è possibile ancora lottare e sperare nel popolo, ritrovarsi in un malcontento che non appartiene e riprendere ugualmente a sognare qualcosa di meno disgustoso.
Kim Tae-yong, sempre dalla Corea. Racconta storie d’amore non pronunciate, di tardo autunno, in città spoglie, con attori che celano emozioni. Non sa perché lo fa, del resto per lui è molto difficile scrivere una sceneggiatura. È una storia da raccontare e così è uscita fuori. Tang Wei, attrice dalla Cina. Bellissima senza essere primadonna. Una ragazza che sa guardare e capire le persone. Non ama lo star-system e immagina con fare seduttivo un futuro da aiuto regista. Sono legati al mare e alla pesca, conoscono le difficoltà dei propri nonni e dei genitori, sanno che la storia di ognuno potrebbe essere un film.
Forse non sarei essere dovuto essere lì, per il dovere di credere in qualcosa di diverso e lottare per questo. Forse ero nel posto giusto, perché chi dissente è poco propositivo, mentre la cultura e l’amore sono rivoluzione, mentre il cinema coglie le coscienze della gente e sa essere protesta.
Wang Xiaoshuai, Cina, ho scelto di assecondarlo per poterlo ascoltare. Non nasconde disappunto e trasmette concetti reiterati a qualunque tipo di pubblico. Si difende, difende il suo cinema. Legato all’idea-immagine di cinema indipendente. Legato alla storia e all’arte. Lin Yu-hsien, Taiwan, è elegante con i suoi modi impacciatamente e onestamente curiosi. Verso il pubblico e verso l’esterno, ma con la coscienza delle sue origini. L’unico regista a portare dei regali per il pubblico.
Per un attimo ho avuto paura. Di non vedere mia moglie arrivare. Non era una paura realistica, ma da dentro la bolla di vetro non avevo notizie se non frammenti di allarmismo. E il ritardo si aggiungeva allo scorrere del tempo, alla città blindata e alle attese non corrisposte.
Quando ho accompagnato Mark Lee in sala ho sentito un clamore inpensato, il poeta delle luci e delle ombre, che con la fotografia riesce a dare forma alle idee dei registi ha colto nel segno ed è stato acclamato, abbracciato dal pubblico.
Daniele, Tommaso, Asia, Chiara toscana, Mahtab, Anna, Ciro, Italo, Marco, Andrea, Alessandro Vecchi, Serena, Mara Valeria, Chiara, Rossano, Paolo, Martina, Alessandro Papa. Vi ho sentiti tutti vicino, in dosi diverse, ma tutti presenti.

Canzone del mese:
Armando Trovajoli, Tema di Giuditta

lunedì 26 settembre 2011

Le città visibili

Le città dall’alto
non fanno neppure rumore
Sei in equilibrio
sul bordo di una strada provinciale
fitta di tornarti
e non potresti cadere giù
Passo il tempo
a chiedermi che senso ha
questa vita
fatta di lutti e scelte sbagliate
Un porto, una piazza a semicerchio, torri e una chiesa con un tetto a forma di vela
Il sole stagliato sopra il mare in tramonto
Immagini che sono identità dalle sembianze in apparenza innate
Mi chiedi cos’è quel rosso a pelo d’acqua
Mi viene in mente solo una passione esanime
che vive di braci ancora illese
Penso
a cosa possano farci qui genti venute da terre lontane
Sarà l’impossibilità di vivere e persino di lottare
o la voglia di costruire il futuro
tra sogno giovane e umane impossibilità

lunedì 5 settembre 2011

Di questi giorni

Ho i capelli più corti e l’aria stanca. La sveglia replica il suo richiamo, sono in piedi. Per avvicinarmi al bagno e sciacquarmi la faccia. Poi scendo, abitazione e cucina separate, ancora per non so quanto. Il silenzio è immoto e cerco di non svegliare dal sonno. Un ingenuo ritualismo, fatto di una scodella d’acqua, un fornello acceso nel mattino ancora non annunciato e foglie di tè in una tazza; gli occhi contro la serranda, sui fori tra le assi, per vedere il mondo fuori, la libertà al suo risveglio. Ma io no, non sono libero. Reperibilità, via skype. Mando mail su mail, tutti i giorni per organizzare incontri che non interessano a nessuno, incontri di forma, come li chiama il mio capo. Un buon uomo sempre teso, che un minuto prima pensa a quello che farà il minuto successivo e non ti ascolta. Richiamo dei soldi o della megalomania. Chissà, forse anche automatismo acritico. Non ho tempo di respirare, a volte ho crisi di ansia e mi rendo inattivo, mi fermo. Instabile sui tasti e non so che fare, perché ogni azione mi appare inutile. Mando mail per dare uso ai soldi dello stato, faccio telefonate per convincere la gente di ciò a cui non credo. Il tempo scorre e dopo cinque ore sono di là a vestirmi in fretta, mandare giù una qualunque pasta a bocconi troppo grandi e poi alla fermata del bus. Secondo lavoro: altra scrivania altro sistema di rete condiviso. Nel nome della cultura, ovvero: stipendio da fame, ufficio in perenne disordine e ambiente umano. Ma capita di dare per scontato troppo, soprattutto che non lo si fa per soldi ma per il principio. La sera è un respiro di attesa tra due apnee troppo prolungate. Disorientato, una riacquisizione di personalità non prevista dal programma di astrazione dall’essere umano. Il ciclo è troppo breve per abituarsi al nervosismo o alla ripresa d’aria: sette giorni, cinque di tensione, due di stacco perdendo se stessi. Se questa è vita, al di là della fatica e della fame che non mi sono richiesti.
Paolo è un uomo. Irruento, autoritario, poco disposto al confronto. Ormai è seduto da mesi su una poltrona, senza mangiare e senza dormire. La sua vita è un peso sul dolore della gente che lo ama e che lui calpesta. Paolo non è un bastardo, è un uomo che ha paura di morire. Gli è sfuggita di mano la sorella poco tempo fa e il tabacco di mezza vita gli ha fatto più di qualche danno permanente. Quanto basta per credersi sull’orlo della morte, quella morte che non ha mai avuto il coraggio di guardare in faccia e che ora, si rende conto, è vera e inclusa nella vita, addirittura non la si può fuggire. Così si inventa l’imminenza, che si fa peso su chi gli sta intorno. Così dimentica l’accettazione della malattia e dell’essere umano, sembra già morto lui, si priva di qualunque atto vitale per convincersi che in quel momento, quando sarà non avrà nulla da temere, perché con la morte, lui, ormai ha familiarizzato.
Giorgio è un’ombra. Allegra, del passato adolescente. Di quegli amori su una strada, con una chitarra. La Milano di Brera e delle pavimentazioni rossastre all’ombra di un chiostro. Quando avrei potuto scegliere di essere un artista. Anche allora Giorgio fu un contorno, un sorriso dove approdare di ritorno, completamento di un sogno. Che a cinquanta e passa anni mi batteva una sigaretta e riusciva a farmi sentire la dignità di avere un pensiero che in realtà era del tutto informe. Mi mancherà, di sfondo, ma ha lasciato qualcosa oltre al suo cancro. Perche la sua vita è una storia e sono riuscito a esserne partecipe marginale, quanto basta per lasciare un’orma tremolante fino alla mia estinzione.
Bai Lei ha messo tutto su una bicicletta e ha iniziato a pedalare verso il mare, Daniele si appresta a diventare un professore punk nel grigioverde irlandese. Mario e Pablo mi spiegano la distanza tra la gente e gli intellettuali, elastica e ineluttabile. China files è lì, che si appresta a diventare matura nel mercato, appesa a un passato vicino e a uno spazio lontano. E sono sempre io, come mi avevate lasciato: un po’ dentro e un po’ fuori. Un po’ pescatore con le reti trsiti e un po’ poeta in esilio.
Le scelte si svolgono contemporaneamente ai giorni che fanno una vita. Non lasciate tempo perso, ci dice mia madre. E io lì a pensare a qual’è il tempo perso, se quello della condanna o quello dell’edonismo. A pensare se sarei potuto, potrei, essere giornalista o professore. I sogni me li tengo stretti. Perché un giorno, forse, entrerò davvero dentro un forno, dove l’odore del pane ti avvolge fino a carezzarti, e –dopo qualche anno- riuscirò a fare il pane per le genti del Guangxi, come il migliore anarchico che potrei essere.

Quando non mi sento me stesso non sento mai musica nuova, solo note di sottofondo.

mercoledì 17 agosto 2011

Le ansie disorientate dei neolaurati arrivati in ritardo

Che cos’è questa pesantezza, questo respiro raggrinzito? Questo essere tra quotidianità e ansietà, e il trepidare avido, brama di realizzazione. Un disegno tutto società e competitività istillata in giorni di assente coscienza.
Agli occhi degli altri.
Sì, sì perché è anche questione di indole e la mia ha un gran difetto, l’ho esternato così tante volte che sembra un ritornello sgualcito nella testa, dopo aver consumato un mangianastri.
L’altro, nel bene e nel male. L’altro, una ricorrenza che annebbia l’identità. Una cortese attenzione, un interesse per la diversità, una propensione all’ascolto. Me lo ripeti sempre di giorno in giorno, ogni volta con tono sempre più esplicito, perché l’importante è abituarsi ai propri difetti, prenderne coscienza lentamente per non averne paura e avere schiena ritta, occhi negli occhi.
“E tu dove sei?”, ripeti, “tu cosa vuoi?” E io a pensare che no, non è colpa mia se vedere l’altro felice mi felicitava, mi tranquillizzava. È come un benessere acquietato, un’armonia da intendere in lontananza, un fiume e una barca, sole e luna, un cesso e la fine di una giornata di tirato lavoro, cielo e nuvole, foglie e vento. Pensieri spesi, pensieri su pensieri, inazione riflettuta, rigirata, spogliata e masturbata, osservata in ogni piega. Cos’è vivere? Pensare o agire? Estremo o combinazione? Che tipo di principio sei?
***
Quel che so è che io non amo i rapporti sociali,
che se parlo lo dico a un individuo spogliato di ragione sociale perché altrimenti mi imbarazzo. Ed è imbarazzante pensarlo a questa età, difficile accettarsi, ancor più difficile rimettersi in discussione perché la vita potrebbe non essere di puro individuo e sai che il mangiare è pur sempre il mangiare.
Appianare il legno, una pialla un mestiere. O una pala, un forno. Ma cosa vuoi in fondo, tu, dalla vita? Dove dirigi le tue azioni? E cosa vuoi: essere te stesso o degli altri? Da un estremo all’altro per trovare il giusto ingranaggio, né troppo a Ovest, né troppo a Est. Si sa, è solo una questione di posizioni.

Canzone del mese:
Celentano: L’arcobaleno (e pensare che Mogol ai testi non mi è mai venuto da ammirarlo, in tutta onestà. Ma davvero, non posso farne a meno, in fondo sono appena tornato in Italia, in questa Italia).

mercoledì 27 luglio 2011

Ricordo di un poeta. 海子

“La poesia ha ancora uno scopo, la poesia è davanti agli occhi e si respira nell’aria. È possibile portarla e sentirla dentro di sé, basta toccarla per avere pace, è qualcosa che c’è ed è tangibile.”
Con queste parole Zhou Yunpeng, cantautore e poeta cinese, chiudeva un post del suo blog, scritto il 24 marzo di quest’anno.
Il 24 marzo ricorre l’anniversario della nascita di uno dei poeti cinesi più influenti degli ultimi decenni, Haizi. In quella data, ventidue anni fa, Haizi (海子)si allontanò da Pechino per recarsi nell’area di Shanhai guan, dove la Grande muraglia cinese si congiunge con il mare. Solo due giorni dopo pose fine alla sua vita disteso sui binari di una ferrovia, all’età di venticinque anni. Da allora il 26 marzo è divenuta una data a metà tra commemorazione e cultura, un giorno in cui i poeti cinesi si riuniscono in diversi angoli del paese per recitare le loro opere in omaggio di Haizi.
Zhou Yunpeng ha ribadito pochi anni fa il suo omaggio a Haizi, musicando una sua poesia, “Settembre”. Quest’anno, nel suo blog, lo ha ricordato non come un simbolo intangibile, ormai levato sopra la gente comune, ma come un ragazzo normale, che ogni anno viene pianto da una famiglia come tante e che come tanti, fra tanti dava voce alla sua poesia.
“Oggi poeti come Haizi, che spendono la loro vita nel nome del romanticismo, si sono estinti, proprio come quei dinosauri dotati di una statura immensa e che non c’è modo di far rivivere. Un’esistenza romantica è quasi inarrivabile. Ci vorrebbe tutto il petrolio del Medioriente per produrre il carburante necessario a bruciare se stessi; e dopo aver bruciato il proprio corpo raggiungere il Nirvana della fenice. I romantici sono persone che ritornano al passato, affacciate permanentemente sulle epoche dell’infanzia e della freschezza. Così nei versi di Haizi è difficile trovarvi il lessico della quotidianità, era uno di quei talenti ben lontano dalla norma.”

Settembre

Una distesa di fiori selvatici, la prateria dove si assiste alla morte di ogni spirito
E vento, risalente a luoghi lontani, ancor più lontano dei luoghi lontani
Il mio gemito è suono sommesso di corda tesa, senza lacrima alcuna
Lontananza di luoghi lontani che restituisco alla prateria
Uno è chiamato Testa di cavallo, uno è chiamato Coda di cavallo
Il mio gemito è suono sommesso di corda tesa, senza lacrima alcuna

In luoghi lontani una distesa di fiori selvatici, solo nella morte rappresi
Sospesa in alto sulla prateria la luna, come specchio rischiara il tempo millenario
Il mio gemito è suono sommesso di corda tesa, senza lacrima alcuna
Solitario sospingo il cavallo attraverso la prateria

lunedì 13 giugno 2011

Sulla democrazia (in tempi di referendum)

“Sto diventando sempre più anti-democratico”.
L’interlocutore impallidiva, una frase del genere diede forma a spettri su cui l’essere umano (propriamente europeo) non aveva fatto ancora pace con se stesso.
Di mezzo c’era la memoria storica, ancora calda; la follia dei nazionalismi, l’olocausto, Hitler, il male. Uno dei pochi mali sopravvissuti in un’epoca di attenuamento dei bianchi e dei neri.
Per questo motivo l’uomo non riusciva neppure a concepire teoretiche alternative. Poi c’è il calcolo politico, per carità, per cui la democrazia viene dipinta all’opinione pubblica e al resto del mondo come il punto d’arrivo della civiltà, ultimo atto di un eurocentrismo che di danni ne ha fatti, eccome se ne ha fatti.
In Cina non c’è democrazia. Lì il governo è costruito su un partito, il partito si dice di rappresentare il popolo e governa. Chi non è d’accordo generalmente ha pochi mezzi per esprimere un dissenso e quando ci riesce ha ancora meno mezzi per avere un riscontro politico-sociale. Poi: se impatti frontalmente il partito è finita, ti schiacciamo come se non fossi nessuno. Sì, spesso non è che diventi il male, semplicemente e improvvisamente non esisti, la società cinese continua a girare e non sa nulla di te.
In Italia abbiamo tanti partiti e scegliamo il primo ministro, incaricato di governare attraverso l’esecutivo. Noi siamo civili, il popolo non è più massa ma essere responsabilizzato nella società, chiamato a partecipare alla vita politico-sociale del proprio paese. Siamo cittadini, viviamo nella società civile, siamo parte integrante dello Stato.
Il sistema democratico non è la perfezione del vivere in comune. La democrazia è immersa nella storia, come tutto ciò che ha a che fare con l’essere umano e le sue proiezioni terrene. Democrazia. Non esempio perfetto di civiltà, ma ideale che sobbarca difetti restando ancorato a terra. Occorrerebbe concepire e razionalizzare le necessità; esprimere insoddisfazione per allargare la base sociale del dubbio costruttivo, esercitare pressione, negoziare e ottenere riconoscimento dall’alto.
Voto, elezione, feste e lutti a seconda del vincitore, fine del dibattito pubblico. La democrazia rimane spogliata del suo pane: il confronto politico popolare, che si impanna sui colori e su reliquie di immaginari ideologici. Per non parlare dei topos italici, che pure la politica diventa una questione di tette e culi. La massa degli elettori è perennemente insoddisfatta, si perde in qualunquismi di condanna generalizzata e dice in coro che si stava meglio quando si stava peggio. Il nostro sistema ha ridotto al voto il simbolo del volere popolare, è questo che dovrebbe divenire inaccettabile. Perché il voto non è divenuto atto reale di responsabilità e partecipazione civica, perché il voto è un pretesto per lavarsi le coscienze e darsi un’identità politica. Forse tutto ciò poteva avere un senso nel dopoguerra, nell’Italia da ricostruire. Comunisti, monarchici, democristiani, ideologie e modi diversi di concepire la vita sociale. Oggi il liberalismo ha vinto e ci limitiamo a un dibattito su privatizzazione e pubblico privo di anima. Tutti dentro una società borghese che nel bene o nel male rappresenta i soggetti che ci vivono dentro. La scelta di chi governa ha perso di significato, le opposizioni si sono ricondotte a identità di vedute all’interno di un sistema con gli angoli smussati.
Le differenze di vedute permangono, anche nei programmi politici. A volte alcuni toni rievocano anche degli ideali dal sapore antico. Ma la società e i suoi bisogni sono omologati e la politica non può prescindere da ciò. Il vecchio proletario ha accesso ai beni di consumo e i nuovi poveri dalla pelle diversa sono abitanti di cui ancora nessuno si cura veramente, gente senza voce. Tanto quelli non sono italiani perché non ci sono nati nella terra che non c’è, ci vivono solo.
Al di là della vecchia sfida di responsabilizzare le masse, che di tempo e voglia per pensare al bene politico non è che poi ce ne sia così tanta, se pensiamo alla democrazia come un valore in divenire allora potremmo iniziare a pensare che la sovranità popolare non dovrebbe tanto essere rinchiusa nel diritto di scelta, quanto nel diritto di controllo. Elezione-fine dei giochi, assunzione del potere-inizio dei giochi. Suona ben diverso.
L’uomo disse: “Il potere non può essere alla mercè di un volere irrazionale e non calcolato di chi la politica non la fa di mestiere”.
“D’accordo. Ma allo stesso modo i valori di una società non possono essere alla mercè del calcolo politico, altrimenti il risultato è la società che abbiamo sotto gli occhi.”
Può esistere un equilibrio quando ci si trova di fronte al potere? Può esistere nella pratica un incontro tra chi detiene e chi subisce il potere? Democrazia è ideale irrealizzabile perché il potere –al di là dei palliativi- è prerogativa di pochi?
Forse non siamo poi così migliori come pensavamo, forse non siamo più evoluti. Forse non avremo molto da imparare, ma neanche tanto da insegnare in fatto di gestione del potere.
E pensa che all’interno del Partito comunista cinese esistono pure due fazioni politiche. Pensa che si scannano dietro le quinte. E poi ricorrono a uguali ideologie per giustificarsi di fronte al popolo una volta preso il potere. In Cina si scannano tra loro e dietro il sipario, nella terra che non c’è davanti alle telecamere. Ma poi chi sale al potere si glorifica sempre di libertà. Di cambiamento e riformismo, che di questi tempi è una moda sicura. Di democrazia.
Non è che il potere è sempre potere e che crediamo a un mucchio di favole pur portando vestiti da intellettuali?

venerdì 27 maggio 2011

La bolla di vetro

È come uno stato di semi-incoscienza. Un fremito ripetuto che non lascia divagazione e respiro. Solo una sottile pesantezza d’animo, ventuno grammi difficili da sollevare. Almeno quanto tutte queste valigie. Ricolme.
Quanto si compra, quanto si consuma in vita. Ce ne si rende conto solo in occasione dei traslochi. Spontaneo pensare che non sia tutto necessario, tutto questo tessuto, la plastica, la carta, le parole scritte e dette. Forse la mia vita non è così semplice come credevo, così priva di orpelli, di superfluo.
Domani sarà tutto diverso, oggi è già diverso. Fra quattro giorni lo sarà di più, dopo un’ultima chiacchierata nella vecchia università dei primi amori. Da Pechino all’infanzia, da un dottorato di ricerca che è percorso di crescita alla disoccupazione.
Mesi fa correvo dietro a un matrimonio di compromessi tra diverse usanze, alla ricerca di equilibri spersonalizzati ma accettabili ai più. Litigavo spesso, spesso ascoltavo Chūntiān lĭ di Wang Feng, per riconoscermi in qualcosa. Poco importa il revival commerciale del pezzo, e le radio dei taxi che lo trasmettevano, sul percorso da casa alla città.
Penso all’effetto che mi farà rientrare nella casa dell’infanzia dopo avere vissuto nella periferia di Pechino per pochi mesi. Due immaginari che sono ossimoro, lindo quotidiano e luàn abbandonato a se stesso. Ora non litigo più spesso, ma avrei voluto pensare, catturare il momento. Non ne ho avuto il tempo. Ascolto Guānghuī suìyué dei Beyond e Bĕifāng bĕifāng di Wan Xiaoli.
Il giorno che ho mandato in stampa la tesi di dottorato è stato un piccolo trauma. Prima ero abituato ad alzarmi, leggere libri, cambiare una nota, una forma di espressione, aggiustare il tiro, andare in biblioteca... Da un giorno all’altro più nulla. Leggo ugualmente ma non posso migliorare nulla, la forma è divenuta definitiva. Mi torna in mente Camus.
Da un palazzo di Shanghai scrivo queste righe. Nella mia vita Shanghai non significa nulla. Non sono ostile ma neppure attratto. Non mi appartiene. Ancora meno oggi che sono qui, di transito, tra ciò che ho amato e un luogo che avevo lasciato anni fa. Sono solito dire che Roma è un buon posto dove tornare, specie dalla Cina, ma non per viverci. Vedremo. Oggi però penso più a quello che sto lasciando.
La polvere, il vento e la fugace aria primaverile.
La vita di periferia lungo i bordi, tra gente comune. Staccato da loro, in mezzo a loro, uomo distratto che guarda da posizione privilegiata.
Un modo di affrontare la vita che è solo mio e di nessun altro, indipendente.
La musica cinese. So già che ascoltarla in terre lontane sarà diverso, come fosse spogliata del suo più immediato riscontro umano, o della sua condizione di esistenza.
Un luogo che amo, non per fascinazioni irrazionali, ma semplicemente per averci vissuto. Non fino in fondo, pensare di esserne stato capace sarebbe solo arrogante, ma con il bagliore di punti di contatto discontinui. Non serve capire “tutto”, darsi una spiegazione a qualsiasi cosa. Solo passarci attraverso senza farsi troppe domande, intenderne una coerenza. Pechino.
Le persone che ho incontrato e amato in sei anni irregolari di cammino. Dai 25 ai 30, un bel salto. Lascio su questa terra, tra queste persone parte di me. Come sempre avviene quando si appartiene a qualcosa. O a qualcuno.
Non riesco a guardare ciò che ritroverò a breve, non ora non qui. Oggi ci sono per ciò che lascio, finalmente un attimo fuori da quella bolla di vetro che è impedimento mentale, castrazione sentimentale. Sarà dura ricominciare altrove, vedremo cosa ho imparato da tutto questo.
La vita è trasformazione, arrivo che è ripartenza. Al primo albeggiare ho aperto gli occhi da un sonno poco tranquillo: l’ultima notte. Al risveglio ero triste, per la prima volta in questi giorni. La bolla si sta incrinando, percepisco che lascio un posto e delle persone in cui credo.
Wăn’ān Bĕijīng. Non aspettarmi, anche se so che non lo faresti mai per nessuno.

domenica 24 aprile 2011

Mano nella mano, respiro nel respiro nella metropolitana di Pechino ("Terzo provai con la pistola, sparai parole")

Premesse:
Primo. Non so, mi è venuta in mente così oggi mentre prendevo la metro a Pechino. Fare un video che non farò, o forse sì. Magari. Un giorno. Se. Ne avevo già immaginati altri prima. Pechino ha una rete metropolitane molto sviluppata, ma non basta. “Zhōngguó rénkŏu duō”, te lo senti dire a più riprese in Cina; ostinatamente, instancabilmente. “I cinesi sono tanti”. La linea uno va da Ovest a Est, taglia in due la città, ma la città si è allargata, così al capolinea della linea uno si può prendere un altro treno, la linea bātōng, sempre più verso Est. È qui che vivo da qualche mese, in una periferia che sembra film.
Secondo. Bātōng+cambio linea uno orario di lavoro per la prima volta in 5 anni non lo avevo mai fatto prima spero di non doverlo rifare c’è gente che lo fa ogni giorno ad esempio tutti quelli che hanno un posto fisso e vivono nella periferia Est della città. Mezzi alternativi: assenti. Taxi, bus e mezzi di superficie bloccati nel traffico di una delle arterie principali del traffico cittadino, con semafori a ripetizione e cantieri in costruzione.
Terzo. Non è un problema della compagnia di trasporti come potrebbero supporre gli utenti Atac. A Pechino i trasporti funzionano, ci sono metro ogni pochi minuti e gli autobus passano spesso. Semplicemente, non bastano perché c’è troppa gente che vive in questa città e le distanze sono diradate nello spazio.
Cronaca:
Arrivo in stazione, la fermata si chiama ‘Università della comunicazione’, è la terza sulla linea bātōng. Ogni fermata metro a Pechino ha un metal detector all’ingresso (non c’è mai stato un attacco terroristico ma il nipote di un alto dirigente è il padrone di un’azienda che li produce e così... Evviva il post-socialismo con caratteristiche cinesi). La fila inizia da lì, appena dopo l’ingresso in stazione e prima dei tornelli. Alcuni guardiani sono in contatto radio con le banchine: appena si svuotano un po’ fanno muovere i primi della fila oltre i tornelli. Tempo di attesa: pochi minuti.
Scendo le scale e arrivo sulla banchina, neanche troppo piena. Funziona –penso-, così evitano il congestionamento e tutto fila liscio senza spintoni. Ingenuo. I treni arrivano già pieni zeppi, nessuno scende ed è palese che nessuno potrebbe neanche salire. Ma i primi della fila prendono una mini rincorsa con aria tranquilla; e premono, premono, premono ancora finché non ne entrano almeno quattro. Mentre si chiudono le porte dalla banchina la gente li spinge dentro con l’aiuto anche gli ausiliari di stazione. Qualcuno pronuncia frasi di incoraggiamento: “Secondo me ce la puoi fare”, “Prova a spingere un po’ più dentro la gamba destra che ce l’hai fatta”. Tutti hanno un’aria tranquilla, concludo che questa è la normalità. All’arrivo del primo treno sono in terza fila, la seconda volta potrei osare ma non ho il coraggio di buttarmi dentro, la terza tiro un sospiro, mini-rincorsa e mi butto dentro spingo e aspetto che mi spingano da fuori. Funziona, addirittura ne sale un’altra dietro me.
Sul treno: le tre fermate sono un incubo, manca aria, ho un braccio di una ragazza conficcato nella schiena, mi premono alle frenate e alle ripartenze e premo anch’io chi sta dietro.
Infine: arrivo al capolinea e cambio linea uno. Le porte si aprono come fossero gabbie, le persone escono come fossero in fuga. Come fosse una gara. O una scena di panico. Tutti corrono per salire per primi le scale. Motivo evidente, appena si sale al piano di sopra tutti fermi incolonnati in un percorso con transenne. Percorso lungo, a zig zag, di quelli che innervosiscono perché ti fanno arrivare da un capo all’altro della stazione che di per sé è bella grande quando basterebbe andare dritti per venti metri per raggiungere le scale e scendere sulla nuova banchina. C’è chi è in ritardo, li vedi prendere una rincorsa e scavalcare per primi le transenne. Sembrano i 110 a ostacoli con atleti in gicca e cravatta e pancetta.
Sotto la banchina va un po’ meglio, le metro passano spesso. Aspetto con pazienza di diventare il primo della fila e quando arriva il treno ho il mio posto. Ma già dal capolinea la linea uno si riempie e nelle prime stazioni osservo da seduto i giochini a pressione tra chi scende e chi sale. Immagino me lì in mezzo, solo un quarto d’ora prima.
Penso a chi lo fa tutte le mattine. Se questo è essere vivente.
Dal mio posto immagino il mio video con riprese da diversi angoli visuali: sulle file, da fuori e da dentro il treno, zoom sulle spinte per far entrare la gente nei treni, inquadrature da lontano delle corse per prendere i posti sulle scale e sulle banchine, la corsa a ostacoli. E poi la colonna sonora, qualcosa di indie-elettronico urbana. I primi a venirmi in mente sono i Death in vegas, Hands around my throat.

lunedì 18 aprile 2011

Il cinematografo cinese

Jiang Wen, Zhang Yang, Li Yu. In semplice ordine cronologico.
Non ho mai pensato di avere le giuste competenze per spiegare il cinema cinese, solo che in un certo senso mi scuote.

Jiang Wen, uomo, è uno che ti sa far ridere e colpire insieme, nella stessa storia, nelle stesse azioni. È uno che noi stranieri probabilmente non capiremo mai fino in fondo per quanto è cinese, ma quello che arriva basta a rendere soddisfatti tutti gli spettatori, su diversi livelli. Stavolta mi ha raccontato una storia d’amore durante la Rivoluzione culturale, e tanto mi basta. Una storia senza fine e che forse non è mai esistita, ma solo immaginata. Storie di ragazzi di strada e di violenza, di grassi spiriti di camerata e buoni sentimenti. Invidie e gelosie. Quanto di buono e inevitabilmente cattivo c’è nell’essere giovani. Ho guardato al film come stessi guardando al passato e come potessi riviverlo. Quelle stesse bontà e cattiverie probabilmente non svaniscono nella crescita, ma mi viene da pensare che l’esperienza aiuta l’uomo ad accettare e coesistere coi suoi eccessi sentimentali e le sue estensioni più misere. Poi si può dire quel che si vuole, che un protagonista non ricordi il finale delle sue storie o le sue storie stesse perché il governo vuole privare un popolo della sua memoria. Magari è così, in fondo Jiang Wen è quello dei diversi livelli di accessibilità. Ma il mio punto non sarà quello, il mio punto sarà godere delle sfumature: di una tragedia agli occhi della storia che è stata gioia fanciullesca e adolescenziale per individui, nello stesso spazio e negli stessi giorni. Per poi tornare a essere dolore, sempre individuale, o dimenticanza, confusione. Come dire il dolore restituito alla gioia che però non sarà mai compiuta e forse, addirittura, era solo immaginata come un sogno di bambino nelle giotnate di sole splendente.

Saranno trent’anni dopo, forse. Dopo la negazione del maoismo, dopo che i buoni sarebbero diventati cattivi, i cattivi sarebbero stati riabilitati e la memoria collettiva sarebbe stata riscritta di nuovo. Dopo che la Cina liberò se stessa per tornare a cadere sui propri fantasmi. Chissà se è solo una faccia di un trauma collettivo. Chissà se è la frustrazione di un ideale privato in una società resa nuovamente conforme. Chissà se è solo un esempio, che potrebbe trovarsi ovunque e in ogni tempo, di un individuo che si trova a vivere in una società che non è sua. Zhang Yang, uomo, ama parlare di famiglia, demarcando complessità e sfumature nei rapporti all’interno del nucleo familiare ristretto. Ma stavolta sembra anche avere voluto raccontare lo spirito di una fetta di epoca cinese degli anni ’90. Quella Cina urbana che negli anni ’80 se l’era spassata nella sua adolescenza liberale e negli anni ’90 si era messa al lavoro, ognuno con il suo business, piccolo o grande che fosse. C’è chi non ce l’ha fatta e si è ribaltato su se stesso, seduto su un parco rimediato e costretto tra soprelevate e anelli. Senza riconoscere più se stesso né i familiari, senza parlare e perdendo direzioni. Una storia del tentativo di riscattarsi (dalla tossicodipendenza o dall’inerzia e dall’aggressività cui costringe la società?) in una famiglia normale, umile cinese. Fa male vedere due genitori come tanti subire la cattiveria di un figlio. Ridotti all’impotenza perché le autorità sono sovvertite e il figlio sa che può continuare a infierire perché i suoi genitori non lo abbandoneranno mai. Fa ancora più male vedere degli attori recitare loro stessi, costretti a rivivere un dramma atto dopo atto su un palco di teatro. Se almeno fosse stata una reale esternazione. Sembrava lasciare speranze, Jia Hongsheng alla fine del film, nella ripresa di una vita semplice. Ma la riproduzione della realtà attraverso una camera finisce nel 2001 e l’attore che recita se stesso si suicida nel 2010, credo si sia gettato faccia al vento fino allo schianto. Sarà impossibile che ci racconti o che costringa la sua famiglia a raccontarci la sua morte stavolta. Sembrava Ieri.

Oggi. Questa volta è un incidente stradale. E una donna, una madre che lo rivive giorno dopo giorno nel suo garage, dentro le macerie di una vettura. Si può scegliere di morire così, giorno dopo giorno, per quanto ci si sente abbandonati. In casa sono arrivati tre ragazzi, con il bene e il male della gioventù. Sanno ferire. Sanno perdersi nelle botte per difendere l’orgoglio e gonfiare il petto. Sanno amare gli eccessi. E sanno farsi amare, sì sanno amare e farsi amare con quella convinzione ancora non intaccata dalla vita. Nei giorni in cui i compromessi puoi solo immaginarteli e dirti che saprai accettarli quando sarà, o magari proprio non ci pensi. Li Yu, donna, ama la fotografia attenta al dettaglio, con certi effetti. Inquadrature, montaggi che sanno trasmettere molto. E poi ci sono squarci di luce che non è solo abbaglio ma vita espressa. Le urla sui tetti dei treni all’uscita dal tunnel travolti dalla luce come a soffocarti. Uscire dal buio e alzare le braccia, chi attraverso la condivisione di un’amicizia, chi ammettendo di avere qualcuno ancora affianco. Chi prendendo coscienza della morte che si aggira fuori casa, a pochi chilometri da casa: erano vere le immagini del terremoto di Wenquan, immagini reali e soprattutto fresche, con l’odore della contemporaneità ancora addosso. Distruzione e morte che senti sulla pelle, era solo il 2008. E chi è vivo può solo rendere giustizia a chi vivo non è più onorando i giorni a rimanere. Andava tutto liscio, ma anche qui c’è un salto nel vuoto. Forse non è neanche la cosa più importante, in fondo era solo una donna che voleva la liberazione e quale momento migliore per farlo se non quando hai saputo dimostrarti di potere essere ancora viva, se solo non fosse per. Questa volta non so perché ma è stato un salto nella pace, in fondo intorno tutto era verde e saltare dalla montagna del Buddha della compassione non è come buttarsi giù da un palazzo di una metropoli.

Film del mese:
Giornate di sole splendente, regia di Jiang Wen, uomo (1994).
Ieri, regia di Zhang Yang, uomo (2001).
Il monte del Buddha della compassione, regia di Li Yu, donna (2011).

lunedì 28 marzo 2011

Song Yuzhe (宋雨哲)

***Senza pensarci troppo me lo immaginavo diverso il cimitero di Pechino. Incolto, poco curato; superficialmente, non saprei neanche dire il perché. Invece è razionale e asfissiante, le lapidi in fila non hanno modo di respirare, privazione di spazi. Nella quiete di un verde curato, come immaginario vuole.
“Lavorare qui deve essere bello”
No, forse l’immaginario non è proprio lo stesso.
Avete
riso, scherzato sulla lapide di un amico dopo solo due anni.
Non so neanche se sia per imbarazzo come mi hai detto
o per una forma di coscienza di fronte alla morte che non so neanche immaginare.
Non so neanche
se preferirei che fosse così, a tratti eravate convincenti nel ridere di fronte alla morte.
Io nel frattempo pensavo al fatto che accanto a ogni tomba c’era un albero. Immaginavo questi alberi crescere dopo la sepoltura e che in ognuno di essi si trasferiva lo spirito di un morto. E che mentre noi credevamo di guardare loro su una lapide fossero invece loro a fissarci da un albero, noi e la nostra ingenuità.
Peccato il traffico, che dopo quaranta minuti avevamo fatto massimo un chilometro e tanti ce ne sarebbero spettati ancora, nella folla e nel fremito. Peccato le persone di cui ci siamo circondati, ma non sempre si può pretendere molto dal concetto di compagnia. Mi sono trascinato stancamente fino a sera, aspettando del sollievo sotto forma di musica, che ovviamente è arrivato.
***Due volte in due mesi, Song Yuzhe. Avrei voluto dirgli: “Da parecchi mesi sei il musicista che sa rappresentare meglio la mia comprensione della musica”. Non l’ho fatto perché è uno alla mano e per evitare forme di idealizzazione proprio ora che ho in corpo una certa disillusione verso il mondo. Probabile che in realtà abbiamo due visioni della musica completamente diverse, in faccia a quello che provo quando lo ascolto.
Per un critico non sarebbe difficile parlare di sperimentazione folk cinese. E di ponti. Tra il passato –che sia un film muto che ha perso la voce ma non l’espressività, che siano popoli antichi e lontani dalla società urbana globalizzata- e il presente. Tra la gente comune che fa musica da tradizione e una platea che ostenta intellettualismi. Rivisitando con animo internazionale, strumenti tradizionali e una voce (che voce, dalla gola, dalla pancia, fondamentalmente da dentro, da cavità senza essere gutturale, primordiale ma articolata. E libera) canti etnici. Uno che sa cantare, che sa suonare e che è portato. Che non si ferma, che rivisita. Improvvisare forse no ma riconfigurare un’identità musicale spontaneaente sì.
Per me non so. Non saprei di cosa parlare né dire. Se non che lo ascolto. Non tutti i giorni ma che ogni tot mi viene da riprendere il cd e metterlo su, farlo girare, vivermelo e sentirmi vivo. Anche se poi in fondo parliamo due lingue –anche musicali- diverse. Ancora non ho preso in mano i suoi testi dopo mesi. Mi piace pensare che siano come te li fa immaginare la musica: immediati, che cantano una vita semplice non urbana, quasi scurrili (mi torna in mente Hao Jie...). Leggere, tradurre, appurare. Prima o poi.
***Infine,
Ieri un altro scontro post-matrimoniale, lacrime a doppio senso, riappacificazione con noi stessi. Mah, oggi scrivo in un parco con il futuro nella tasca dell’inconoscibile che sapremo mentre vivremo. E due biglietti in tasca, finalmente davvero due, per l’India. Forse Sikkim, forse parco nazionale himalayanico. Prima di partire voglio rivedere Three Idiots e commuovermi sull’idealismo indiano a lieto fine. Anche questo voglio farlo in due.

Album del mese:
Da wanggang (大忘杠), Huangqiang Zouban (荒腔走板) (dall’inizio alla fine, ripetutamente a distanza di intervalli di tempo irregolari).

lunedì 14 marzo 2011

Post-, in transito

E se tra due ore mi ritrovassi lì, senza pensieri e parole.
“Sposarsi non ha senso, è meglio non farlo, è meglio che ognuno viva a casa sua con la sua libertà”. Potevi dirlo prima, almeno un mese fa.
E se non sapessi cosa dire per l’imbarazzo. Se arrivassi con la faccia che ho adesso. Poi dici la domenica, la domenica. Poi dici che se esiste un giorno da patire attimo dopo attimo, dimmi se non è la domenica.
Sono due settimane, un mese, no ancora di più, amore. Sono giorni su giorni che mi dici cose che lasciano su una strada con le mani in tasca. Pechino è la città ideale per vivere tutto questo, una castrazione emotiva che ti (si?) tiene tutto dentro. Proprio io, mi viene da dire, proprio io amore che butto sempre tutto fuori. Avrei voluto tradirti e tradirti ancora ma cos’è il tradimento? Se ne può parlare, magari con un amico che ci presenta. Magari in una casa su Anding men con mille altri pensieri per la testa.
Ci vorrà un’ora e mezza almeno, prima di arrivare. L’altro ieri ne ho fatto un pezzo a piedi, più di un chilometro di notte, sembrava sempre lo stesso film. Di Jia Zhangke, il film che non c’è, quello che avrebbe fatto seguito a Platform e Xiao Wu. Anni ’80, anni ’90, anni zero. La provincia cresciuta, ad un passo dal centro di Pechino ascoltando Quando tornerai dall’estero. Più o meno. Sul quinto anello orientale. Ho sempre pensato che vivere in uno di questi posti sarebbe stato come stare in un film sociale. Lo è. Cinese, dove gli emarginati non hanno modo di articolare? esprimere? emozioni. Era mezzanotte, dall’incrocio Sud della via della gioventù all’anello, fin sotto l’anello. Ho visto: un lotus, un mac, una volvo, un bmw, un ospedale, un parco di periferia. Spoglio. E ubriachi della tarda notte. E una sala biliardo. Sapevo che lo avrei fatto, magari solo perché una sera avrei speso troppo per mangiare. Poi capisci perché in Quitting c’è l’annuncio di un suicidio. Cambiano le generazioni di cinesi ma riconosci il contesto.
Amore, se mi dicessi che:
non siamo altro che angeli con una sola ala,
che possono volare
solo abbracciandosi l’uno con l’altro
.
Se sapessi ora la realtà del domani. Quale tra frase esasperata e poesia. Se sapessi dove inizia la rivoluzione e dove l’uomo.
Sì, sarebbe più facile.
Ma non potrei sapere tutto questo, potrò solo viverlo, sbagliare, sperarlo, disilludermi, ferire, essere ferito, lasciarmi al contagio degli entusiasmi, credere. A posteriori sarà meglio così e, chissà, forse questo mi aiuterà ad essere un uomo migliore.
Il mese scorso mi sono sposato, amo mia moglie.

martedì 11 gennaio 2011

Per rinascere devi prima morire

E’ una storia di ascenzioni e cadute, di aspirazioni obbligate a terra. L’everest ti riduce al silenzio... Ciò che ti ammutolisce, credo, è la visione che hai avuto della perfezione: perché parlare, se non sei in grado di elaborare pensieri perfetti, frasi perfette? Ti sembra un tradimento di quello che hai vissuto. Storia di iceberg e montagne. Un iceberg è acqua che si sforza di essere terra; una montagna è un tentativo della terra di trasformarsi in cielo; è un volo costretto al suolo, la terra mutata –o quasi- in aria, esaltata, nel senso più vero del termine.
Di un inganno, di vicinanza al divino. Il distacco dal reale avvicina all’idea di Dio ma insieme diviene follia staccandosi dall’uomo, diviene fantasma che perseguita durante le cadute. Dove l’uomo, il materiale, l’Occidente sono il reale.
Che idea è Dio? che sovrapposizione si nasconde tra bene e male? Quale tra umano e divino? Perché l’uomo è condizione del divino? Perché la fede, perché l’assenza di fede condizionano il significato di ciò che è considerato vero?
A qualsiasi idea nuova, Mahound, si fanno due domande. La prima la si fa quando è debole: Che specie di idea sei? Sei della specie che scende a compromessi, tratta, si adegua alla società, aspira a trovarsi una nicchia, a sopravvivere; o sei quel tipo di idea cocciuta, intrattabile, inflessibile che preferirebbe spezzarsi che lasciarsi portar via dalla brezza? Quella di questa specie sarà, quasi sicuramente, fatta a pezzi novantanove volte su cento; ma, la centesima, cambierà il mondo.
E’ storia di una religione che scelse il calcolo quando fu abbagliata, che riprese la propria strada quando ritornò sobria e si riscoprì politica e condizionata nel dubbio di chi era stato discepolo e padroneggiava la scrittura. Perché umanizzata, perché il divino è invisibile, perché la rivelazione è chiamata dall’uomo. L’umanizzazione degli angeli. Peccatori gelosi per amore, né bianchi né neri, come gli uomini. Strumento dell’ignoto e ancor più della fede. Esiste più la volontà di credere che l’oggetto creduto. Incondizionata, retta, rivolta a Dio, da Jahilia all’esilio. Esule è il sogno di un ritorno glorioso. Esule è la visione di una rivoluzione: l’Elba, non Sant’Elena. E’ un paradosso senza fine: guardare avanti guardandosi sempre indietro.
Il dubbio. Il sacro nel sacrilego. Il sacrilego che imita il sacro e trascende la bellezza in un bordello con puttane, che lentamente assumono le sembianze delle mogli del profeta. Malato, morente, cieco, eunuco. Il sacro corroso dal dubbio, che contamina la purezza e la costringe a poggiare i piedi a terra. Dalla rivoluzione di un’idea all’istituzione. E’ storia della guerra tra parola e Scrittura. Puttane e scrittori, Mahound. Siamo noi quelli che non puoi perdonare. Mahound replicò: “Scrittori e puttane. Non vedo nessuna differenza”.
C’era una volta un movimento di folla. Verso il mare. C’era una volta Titlipur, il villaggio delle farfalle, con al centro un enorme albero di baniano che adombrava i tetti di ogni casa offrendo protezione coi suoi rami. E’ la storia di un amore, due, tre, quattro. Di dolore e vendetta. Di una lotta per amore che fu anche egoismo. La fede contro la miscredenza, lo spirito contro la materia. Del senso umiliato di un pellegrinaggio nel mondo del benessere. Del non-senso della superstizione e di una morte che fu salvezza.
L’angelo rivela mentre sogna: Tutt’intorno, pensa tra il sogno e la veglia, ci sono persone che odono voci, che si fanno sedurre dalle parole. Ma non sono sue; non sono farina del suo sacco. –Allora di chi sono? Chi sussurra nelle loro orecchie, mettendoli in grado di smuovere montagne, fermare orologi, diagnosticare malattie?
Uomo o Dio?
Perché ciò che uno crede dipende da ciò che ha visto –non solo da ciò che è visibile ma da ciò che si è disposti a guardare in faccia.
Saladin, il demone. Gibreel, l’angelo. Il male geloso del bene, vendicativo. Il male che non accetta se stesso e si maschera; il bene che vive compiaciuto la sua imperfezione e seduce. Il bene che impazzisce, il male che diviene equilibrio. Sullo sfondo storie di ordinaria discriminazione.
Il mondo è inconciliabile, non dimenticarlo mai.
E’ storia di fragilità umana, di imperfezione inconsolabile anche dall’idea di Dio.

Autore: Salman Rushdie
Titolo: I versi satanici, 1988