lunedì 5 settembre 2011

Di questi giorni

Ho i capelli più corti e l’aria stanca. La sveglia replica il suo richiamo, sono in piedi. Per avvicinarmi al bagno e sciacquarmi la faccia. Poi scendo, abitazione e cucina separate, ancora per non so quanto. Il silenzio è immoto e cerco di non svegliare dal sonno. Un ingenuo ritualismo, fatto di una scodella d’acqua, un fornello acceso nel mattino ancora non annunciato e foglie di tè in una tazza; gli occhi contro la serranda, sui fori tra le assi, per vedere il mondo fuori, la libertà al suo risveglio. Ma io no, non sono libero. Reperibilità, via skype. Mando mail su mail, tutti i giorni per organizzare incontri che non interessano a nessuno, incontri di forma, come li chiama il mio capo. Un buon uomo sempre teso, che un minuto prima pensa a quello che farà il minuto successivo e non ti ascolta. Richiamo dei soldi o della megalomania. Chissà, forse anche automatismo acritico. Non ho tempo di respirare, a volte ho crisi di ansia e mi rendo inattivo, mi fermo. Instabile sui tasti e non so che fare, perché ogni azione mi appare inutile. Mando mail per dare uso ai soldi dello stato, faccio telefonate per convincere la gente di ciò a cui non credo. Il tempo scorre e dopo cinque ore sono di là a vestirmi in fretta, mandare giù una qualunque pasta a bocconi troppo grandi e poi alla fermata del bus. Secondo lavoro: altra scrivania altro sistema di rete condiviso. Nel nome della cultura, ovvero: stipendio da fame, ufficio in perenne disordine e ambiente umano. Ma capita di dare per scontato troppo, soprattutto che non lo si fa per soldi ma per il principio. La sera è un respiro di attesa tra due apnee troppo prolungate. Disorientato, una riacquisizione di personalità non prevista dal programma di astrazione dall’essere umano. Il ciclo è troppo breve per abituarsi al nervosismo o alla ripresa d’aria: sette giorni, cinque di tensione, due di stacco perdendo se stessi. Se questa è vita, al di là della fatica e della fame che non mi sono richiesti.
Paolo è un uomo. Irruento, autoritario, poco disposto al confronto. Ormai è seduto da mesi su una poltrona, senza mangiare e senza dormire. La sua vita è un peso sul dolore della gente che lo ama e che lui calpesta. Paolo non è un bastardo, è un uomo che ha paura di morire. Gli è sfuggita di mano la sorella poco tempo fa e il tabacco di mezza vita gli ha fatto più di qualche danno permanente. Quanto basta per credersi sull’orlo della morte, quella morte che non ha mai avuto il coraggio di guardare in faccia e che ora, si rende conto, è vera e inclusa nella vita, addirittura non la si può fuggire. Così si inventa l’imminenza, che si fa peso su chi gli sta intorno. Così dimentica l’accettazione della malattia e dell’essere umano, sembra già morto lui, si priva di qualunque atto vitale per convincersi che in quel momento, quando sarà non avrà nulla da temere, perché con la morte, lui, ormai ha familiarizzato.
Giorgio è un’ombra. Allegra, del passato adolescente. Di quegli amori su una strada, con una chitarra. La Milano di Brera e delle pavimentazioni rossastre all’ombra di un chiostro. Quando avrei potuto scegliere di essere un artista. Anche allora Giorgio fu un contorno, un sorriso dove approdare di ritorno, completamento di un sogno. Che a cinquanta e passa anni mi batteva una sigaretta e riusciva a farmi sentire la dignità di avere un pensiero che in realtà era del tutto informe. Mi mancherà, di sfondo, ma ha lasciato qualcosa oltre al suo cancro. Perche la sua vita è una storia e sono riuscito a esserne partecipe marginale, quanto basta per lasciare un’orma tremolante fino alla mia estinzione.
Bai Lei ha messo tutto su una bicicletta e ha iniziato a pedalare verso il mare, Daniele si appresta a diventare un professore punk nel grigioverde irlandese. Mario e Pablo mi spiegano la distanza tra la gente e gli intellettuali, elastica e ineluttabile. China files è lì, che si appresta a diventare matura nel mercato, appesa a un passato vicino e a uno spazio lontano. E sono sempre io, come mi avevate lasciato: un po’ dentro e un po’ fuori. Un po’ pescatore con le reti trsiti e un po’ poeta in esilio.
Le scelte si svolgono contemporaneamente ai giorni che fanno una vita. Non lasciate tempo perso, ci dice mia madre. E io lì a pensare a qual’è il tempo perso, se quello della condanna o quello dell’edonismo. A pensare se sarei potuto, potrei, essere giornalista o professore. I sogni me li tengo stretti. Perché un giorno, forse, entrerò davvero dentro un forno, dove l’odore del pane ti avvolge fino a carezzarti, e –dopo qualche anno- riuscirò a fare il pane per le genti del Guangxi, come il migliore anarchico che potrei essere.

Quando non mi sento me stesso non sento mai musica nuova, solo note di sottofondo.

1 commento:

daniela ha detto...

"per un desiderio che esprimi te ne rimangono fuori altri cento"
cit.