sabato 20 marzo 2010

Ubriaco canta amore alla luna (che non c’è)

O almeno c’era. Quando sono uscito, un filo sottile come per sorridermi in una giornata senza sorrisi, dopo che ieri, prima di cedere al sonno, mi sono chiesto senza risposta cosa sia questo essere tra società individuo.
Cosa vuol dire camminare nella nebbia di Pechino alle quattro e mezza di notte mentre gli altri sono in taxi sulla via di casa. Nebbia finta, inquinata. A sanlitun. Dopo mesi (un anno?). Sanlitun è per Pechino una via di locali, uno dopo l’altro, in fila, ognuno uguale a quello che segue. Musica “da ballare”, alcool, ragazze cinesi in mini per tutte le quattro stagioni, marciapiedi pieni, e occidentali turisti-diplomatici-inquilini/lavoratori di giorno e febbre del sabato sera la notte. Pechino trendy. Per una vita, perché la jiuba jie (“la via dei pub”, che in cinese si chiamano i “bar dell’acool”, quindi la “via dei bar dell’alcool”) ha un continuo ricambio di turisti e di gente che vive a Pechino al massimo per un anno e poi se ne va. Magari anche qualche affezionato, ma non troppi, almeno mi piace pensarla così.
È iniziato tutto da un concerto, i Secret Machine a Pechino, nome nuovo dell’indie-rock americano. Dal my space sembravano interessanti, dal vivo invece spaccano, soprattutto il batterista che picchia anche per quell’altro gruppo che ha suonato venerdì scorso e si è presentato, come qualcuno a fatto notare, senza batterista. E la differenza si è sentita tutta. Gran bel concerto. Con facce nuove, semi-nuove e amiche, un buon mix. A seguire parole, le nostre, a segnare un altro bel ricordo per farmi scordare il problema dell’incomunicabilità linguistica. Forse perché poco prima, la musica aveva compiuto la sua solita magia, rendendoci consapevoli di aver provato tutti qualcosa in quella sala. Poi non so come, non so dove, ma si è deciso di accompagnare il gruppo alla via dei “bar dell’alcool”, in un locale modaiolo dal prezzo, almeno per me, esagerato. Nemmeno un secondo dopo aver visto il costo del biglietto ero già sulle scale d’uscita. Subito dopo mi vedo sfilare sotto gli occhi i ragazzi del gruppo, anche loro in fuga. Poi le due facce nuove e semi-nuove, con cui mi incammino verso un fish & nations palesemente falso, un buco grande quanto uno sgabuzzino dove fanno patate e pesce fritto nello stesso olio, dentro la stessa friggitrice, dentro una cucina improbabile. Stona nell’insieme dei pub, ma neanche troppo, col suo tocco spazzatura-americano che attira gli yankees e quella compresenza di vecchio postaccio anti-igienico e asettici mega-center dal bianco smagliante con luce accese giorno-notte che è Pechino. Anche i ragazzi della band si sono infilati lì. Guarda caso. Neanche dieci minuti e la comitiva si è ricompattata al completo. Seduto ad un tavolino un inglese dalla parrucca rossa e un look improbabile a cui chiedo se lavora in ambasciata e lui mi risponde di no. Ma conosce Gordon Brown e gli dico che lo conosco anch’io, di averlo incontrato la settimana scorsa proprio al Fish & Nations. Poi alcuni cinesi, e alcuni stranieri, tutti in uno spazio 3x3 a consumare birra, patatine e pesce. Col batterista dei Secret Machines che stacca il lettore cd dei propietari e dice di voler fare il DJ. Attacca il suo mp3 ai cavi, sfilano i Clash, David Bowie (suo amico) e altri classici a me sconosciuti in uno scenario surreale.
Poi c’è l’uscita: di nuovo sulla strada, quel vento che annuncia la fine di qualcosa, il ritorno alle case. Ma la Pechino da bere è anche questo. Sulla strada si sovrappone gente ubriaca, cazzi in cerca di figa cinese e figa in cerca di cazzi occidentali. E vecchietti vestiti di abiti lisi con bambini che chiedono l’elemosina. Sono apposta lì perché è lì che c’è gente che tira fuori banconote senza pensarci troppo tra drink e drink. C’è chi dice che siano finti poveri, almeno in parte. Un bambino ci ha seguito per un po’, ci ha aspettato fuori da un negozio dove ci siamo infilati e da dove siamo usciti con almeno un dvd a testa. E la percezione di quel bambino è stata imbarazzata, ma comune. Eccoci qui: alternativi perché amanti di buona musica e perché parliamo di cinema e letteratura scambiandoci sogni. Non mi interessa sapere se queste persone siano poveri veri o finti. Alle quattro di notte loro sono per strada a chiedere e noi alla stessa ora ridiamo e scherziamo, compriamo e beviamo. Si sta comodi nella società di consumi da alternativi consumisti, perché ce n’è da consumare. E sto comodo io nel mio letto ad aggiungere un nuovo post al mio blog, collegandomi ad internet per far conoscere idee ed esperienze. Il buonismo è ad un passo, dietro l’angolo. Ma io continuo a sentirmi a disagio nella disuguaglianza sociale, specialmente quando mi trovo ad esserne parte attiva e, purtroppo, quando mi trovo a passeggiarci di fianco.
Anche per questo, e non solo per la musica e per l’ambiente, non mi piace passeggiare per Sanlitun. Per questo alle quattro e mezza di notte cammino nella finta nebbia di Pechino mentre gli altri sono già in taxi sulla via di casa. E alla fine, l’ho preso anch’io il mio taxi per tornare a casa.

lunedì 8 marzo 2010

Sull'idea del vero

Vivere in Cina e, forse ancor più, leggere testi sul Tibet pre-post colonialismo mi ha spinto a interrogarmi su una definizione della validità del pensiero scientifico. Il pensiero scientifico è figlio della rivoluzione contro l’autorità, ha avuto i suoi martiri e un ideale per cui delle persone hanno sacrificato la propria vita. Quell’ideale è la conoscenza. Oggi leggevo di un intellettuale tibetano vissuto nella prima metà dello scorso secolo, il lama buddhista dGe-‘dun Chos-‘phel, un convinto sostenitore del modernismo occidentale e del sapere scientifico. In un suo articolo del 1938 si sforzava di spiegare ai tibetani che la terra era rotonda e non piatta come il Buddha avrebbe detto, verità di cui i tibetani erano rimasti convinti nei secoli. Nel mondo scientifico occidentale lo stesso anno la prima fissione nucleare veniva effettuata e, contemporaneamente, Biancaneve diveniva un cartone animato coi suoi sette nani. dGe-‘dun Chos-‘phel non amava gli occidentali incondizionatamente, ne notava le barbarie senza esitare, ma la scienza sì, quella era degna di ammirazione. Quella forma di sapere che in principio fu repressa ma che di fronte alla propria evidenza risultò infine inarrestabile ovunque, tranne, ahimé, che nel suo Tibet.
Oggi nel mondo esistono ancora dei lama tibetani che sostengono che la terra sia piatta, come disse il Buddha; e che il nostro mondo altro non è che un monte, a Sud del monte Meru, sede divina, in mezzo ad un oceano. Piatto. E se le fotografie via satellite mostrano un mondo sferico non è perché la terra ha effettivamente queste sembianze. Siamo noi a vedere male, con questi occhi gravati da karma negativo. Un’illusione frutto delle nostro bagaglio di esperienze passate, legate alla cattiva condotta nelle vite precedenti e non realtà. I sapienti quando guardano il mondo lo fanno con sguardo puro e non offuscato. Ai loro occhi non sfugge che in realtà la terra è piatta, sotto forma di oceano e con delle montagne che si ergono ai punti cardinali.
Di esempi sulla relatività del vero, per chi vive fuori da casa, ce ne sono milioni, quasi un’esperienza quotidiana quando ci si confronta con l’altro e non con un ambiente ristretto e familiare come quello che si erge intorno al binomio genitori-scuola. La mia convinzione di base è che il vero sorge dal consenso e non da una realtà interna all’oggetto considerato. Che la terra sia piatta o rotonda, essa non lo è di per sé, ma perché noi la vediamo così, chi attraverso gli occhi delle scritture del Buddha e chi con quelli della scienza. Il problema dell’indagine scientifica è che, dopo aver versato sangue per ottenere un riconoscimento ufficiale, ha poggiato sulla sua efficacia e sulla verosomiglianza per escludere tutto il resto. Chi, a parte pochi lama e la società della terra piatta del monopoli, oggi non pensa che la terra sia rotonda. Chi non crede che questo sia evidente, vero di per sé. Il problema della ricerca scientifica non è la validità, ma la sua universalizzazione, che storicamente ha reinterpretato –razionalizzando- modelli di osservazione del mondo culturalmente alternativi. Convinzioni che non possono essere giudicate infondate in quanto non comprovabili scientificamente; semplicemente perché fanno uso di categorie proprie. Assolutizzante, esclusiva.
Si dirà, ognuno è libero di vederla come vuole. Forse questo avviene a livello individuale ma, allargando il discorso a veri e propri sistemi culturali, chi non si è adattato è scomparso o è in via di estinzione. Sviluppo è anche questo, perché non esiste sviluppo autonomamente da un confronto e una negoziazione; ma in presenza di antitesi marcate la legge è quella del più forte e lo sviluppo è assimilazione al sistema più forte. Non che i sistemi più deboli esistessero prima dei tempi e non si fossero nutriti di identità ancor più locali. Incontro, confronto-scontro con l’altro, vittoria del più forte, assimilazione del più debole con mantenimento di alcuni tratti dell’identità originaria da entrambi i soggetti. Forse un tantino evoluzionista.
Eppure a me il relativismo sembra una gran cosa, forse solo perché da la possibilità di sognare mondi alternativi, perché lascia credere che tutto sia possibile a seconda del punto di osservazione. Il relativismo sa vestire di atteggiamento intellettuale un sogno socialmente immaturo. Il non volere crescere perché non si vuole capire che al mondo non c’è spazio per la diversità. Un atto di ribellione verso il punto di vista ufficiale, “in direzione ostinata e contraria”.