lunedì 8 marzo 2010

Sull'idea del vero

Vivere in Cina e, forse ancor più, leggere testi sul Tibet pre-post colonialismo mi ha spinto a interrogarmi su una definizione della validità del pensiero scientifico. Il pensiero scientifico è figlio della rivoluzione contro l’autorità, ha avuto i suoi martiri e un ideale per cui delle persone hanno sacrificato la propria vita. Quell’ideale è la conoscenza. Oggi leggevo di un intellettuale tibetano vissuto nella prima metà dello scorso secolo, il lama buddhista dGe-‘dun Chos-‘phel, un convinto sostenitore del modernismo occidentale e del sapere scientifico. In un suo articolo del 1938 si sforzava di spiegare ai tibetani che la terra era rotonda e non piatta come il Buddha avrebbe detto, verità di cui i tibetani erano rimasti convinti nei secoli. Nel mondo scientifico occidentale lo stesso anno la prima fissione nucleare veniva effettuata e, contemporaneamente, Biancaneve diveniva un cartone animato coi suoi sette nani. dGe-‘dun Chos-‘phel non amava gli occidentali incondizionatamente, ne notava le barbarie senza esitare, ma la scienza sì, quella era degna di ammirazione. Quella forma di sapere che in principio fu repressa ma che di fronte alla propria evidenza risultò infine inarrestabile ovunque, tranne, ahimé, che nel suo Tibet.
Oggi nel mondo esistono ancora dei lama tibetani che sostengono che la terra sia piatta, come disse il Buddha; e che il nostro mondo altro non è che un monte, a Sud del monte Meru, sede divina, in mezzo ad un oceano. Piatto. E se le fotografie via satellite mostrano un mondo sferico non è perché la terra ha effettivamente queste sembianze. Siamo noi a vedere male, con questi occhi gravati da karma negativo. Un’illusione frutto delle nostro bagaglio di esperienze passate, legate alla cattiva condotta nelle vite precedenti e non realtà. I sapienti quando guardano il mondo lo fanno con sguardo puro e non offuscato. Ai loro occhi non sfugge che in realtà la terra è piatta, sotto forma di oceano e con delle montagne che si ergono ai punti cardinali.
Di esempi sulla relatività del vero, per chi vive fuori da casa, ce ne sono milioni, quasi un’esperienza quotidiana quando ci si confronta con l’altro e non con un ambiente ristretto e familiare come quello che si erge intorno al binomio genitori-scuola. La mia convinzione di base è che il vero sorge dal consenso e non da una realtà interna all’oggetto considerato. Che la terra sia piatta o rotonda, essa non lo è di per sé, ma perché noi la vediamo così, chi attraverso gli occhi delle scritture del Buddha e chi con quelli della scienza. Il problema dell’indagine scientifica è che, dopo aver versato sangue per ottenere un riconoscimento ufficiale, ha poggiato sulla sua efficacia e sulla verosomiglianza per escludere tutto il resto. Chi, a parte pochi lama e la società della terra piatta del monopoli, oggi non pensa che la terra sia rotonda. Chi non crede che questo sia evidente, vero di per sé. Il problema della ricerca scientifica non è la validità, ma la sua universalizzazione, che storicamente ha reinterpretato –razionalizzando- modelli di osservazione del mondo culturalmente alternativi. Convinzioni che non possono essere giudicate infondate in quanto non comprovabili scientificamente; semplicemente perché fanno uso di categorie proprie. Assolutizzante, esclusiva.
Si dirà, ognuno è libero di vederla come vuole. Forse questo avviene a livello individuale ma, allargando il discorso a veri e propri sistemi culturali, chi non si è adattato è scomparso o è in via di estinzione. Sviluppo è anche questo, perché non esiste sviluppo autonomamente da un confronto e una negoziazione; ma in presenza di antitesi marcate la legge è quella del più forte e lo sviluppo è assimilazione al sistema più forte. Non che i sistemi più deboli esistessero prima dei tempi e non si fossero nutriti di identità ancor più locali. Incontro, confronto-scontro con l’altro, vittoria del più forte, assimilazione del più debole con mantenimento di alcuni tratti dell’identità originaria da entrambi i soggetti. Forse un tantino evoluzionista.
Eppure a me il relativismo sembra una gran cosa, forse solo perché da la possibilità di sognare mondi alternativi, perché lascia credere che tutto sia possibile a seconda del punto di osservazione. Il relativismo sa vestire di atteggiamento intellettuale un sogno socialmente immaturo. Il non volere crescere perché non si vuole capire che al mondo non c’è spazio per la diversità. Un atto di ribellione verso il punto di vista ufficiale, “in direzione ostinata e contraria”.

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