lunedì 30 dicembre 2013

Terzo grado - nuove scritture


Perché in questi giorni mi cerco e mi ricerco nelle vesti dei sedici anni ancora non coscienti di sé? E guardo a ieri, io che sull’idea di ieri costruivo ideali e scrivevo versi commossi e sconnessi. Io, che perdo di giorno in giorno i giorni del mio passato, per combattere con il presente e imbrattarmi dell’oggi, dell’essere ora e in un luogo. Dimentico come un uomo medio, è questo essere adulti? È omissione del reclamo di urlo quotidiano? È perdita di voce perché lentamente appassisco al vento, o perché non so riconoscere che era battaglia impossibile da battere e che non ci accorgemmo di quel bagliore acciecante che fu la realtà? È vergogna per una parzialità che ambiva ad essere il giusto? Volgo le spalle all’ingenuità, come fossi un cappotto invernale che da’ riparo a mani fredde, o come molo da scorrere di spalle e in solitudine. Scogliera portoghese, colma di distanze e passati gloriosi, spenti e accantonati. Da Varanasi a Xi’an, da Petra a Samarcanda, dalle Meteore alle Alpi trentine. Ho pestato troppa terra per ricordare me stesso. C’è il viaggio per allontanare e il viaggio per ritornare, diceva Calvino e ricorda Simone, c’è Iliade e Odissea. C’è il viaggio per perdere se stessi e divenire altro e quello per ritrovare i passi perduti. Quella di Paolo e Alice è ricerca, quella di Andrea e Mara è fuga. C’è chi pensa a chi era e a cosa sarebbe potuto essere, c’è chi non si volta e acquisisce nuova pelle per non ricordare chi è stato. Terzo grado è uno specchio adatto a ogni uomo, perché ogni uomo ha una giovinezza da dimenticare e riscoprire.

Seguire con lo sguardo il profilo della costa, e desiderare il mare. Ricordare incidentalmente com’era bello giocare a tirarsi l’acqua, e restare lì, come una cosa abbandonata sulla rupe. Sentire il battito della risacca come quello del cuore.
Librarsi lontano come una vela ancorata al vento. Farsi anima, vibrare con il resto della natura.
Verso quel punto dove esistere, e naufragare, è tutt’uno”.

(Marco Crocenzi, Terzo grado, Roma: Edizioni progetto cultura, 2013).

Canzoni del mese:
Secondamarea, Gli anni del mare e della rabbia
Neffa, Passione
Valentina dorme, Ora che non sono più innamorato (cover)

martedì 22 ottobre 2013

Trasfigurare i tuoi giorni nelle mie prigioni - Ricordo n° 5


Maria Sole Maria Sole, regina di luce, divinazione celeste, tu sei pittura. Sei fiaba d’amore, che mi irradia e mi ispira. Lasciati idealizzare, lasciati sperare. Le tette di Manuela sono da spremere, la sua bocca è da aspirare. Maria Sole, tu no. Tu no, tu sei una bellezza verso cui protendere la mano senza che questa riesca a cogliere. Tu sei amore libero, un miele che non è dato ai prigionieri della lotta di classe. Sei amore di sinistra, amore dei fiori in abiti di fine novanta. Senza coscienza sociale e senza Vietnam, ma risplende un’anima in te. Un retaggio, un filo che si fa trama e tessuto da sognarmi addosso. Durante la contestazione. Contestare. Se leggerai mai le mie lettere di Jacopo Ortis, non so neanch’io di quale prigione morirò, ma nella mia cella sarò lì a cantare La bella ch’è addormentata la la là la la là la la là la la / ha un nome che fa paura / libertà libertà libertà. E tu sarai paglia su pietra fredda, sarai pensiero a riscaldare la memoria di colui che ha vissuto e ha perso il vivere. Maria Sole Maria Sole, lasciati immaginare nel mio esilio, lasciati ricordare dalla mia deriva. Io, esploratore che ho smarrito la rosa dei tuoi venti, che scopro America cercando India, che finisco in un fast food credendo di varcare la soglia di stanze ebbre di spezie, sari e sensualità. È una storia sbagliata. Ho fatto confusione, ma eri tanto bella. Eri davvero bella e non so se sei stata sogno o realtà mutata, trasformata, trasfigurata a mio piacimento. Maria Sole Maria Sole, ti vedo in quella clinica a pensare a un ventre che sarebbe stato e che non sarà. Ne sei uscita vestita di nero, tu che eri luce e portavi fiori tra i capelli. Ne sei uscita bambina, tu che potevi essere donna. E chissà in che mari solcherai, tra spire di fumo e aromi agrodolci ti intravedo e ti perdo ancora.

Canzoni del mese:
Kings of Convenience, My Ship Isn’t Pretty
Mark Lanegan, Gray Goes Black
Martin Luther McCoy, While My Guitar Gently Weeps (cover dei Beatles)
Skunk Anansie, Charlie Big Potato (non proprio di questo mese, ma i libri non si scelgono a caso)


sabato 5 ottobre 2013

Ciaramella


Frusta, pelle di piede e terra, terra di sud. Sferza la fuga verso mare, mare di rocce. A picco, e donne in piedi in camice bianco e nera capigliatura. Visione di sole e mare e sale e roccia da sanguinare. Possesso. Espiazione. Chiesa e piazza e donne in abiti lisi, scuri di emigrazione di suole consumate. Anima e vela, sabbia e nassa per tornare a sera con legno logoro e carezzato. Brigare e brigantare, pelle di piede e terra, terra di sud. Terra sfrenata da battere e arrestare, sensuale e posseduta, è qualcosa di più che antica, è viscerale, è tutt’uno con la roccia, è urlo roco e trattenuto, voce strozzata e musica danzata, sfrenata senza chiese e senza piazze. Polvere preesistente che ignora e stona, polvere che sta e non è doma. Dormiente terra, dormiente terra dal mare riemergerai e roccia sarai.

Canzoni del mese:
Officina Zoè, Don Pizzica
Eugenio Bennato, Sponda Sud
Musicanova, Brigante se more

sabato 28 settembre 2013

Il vento di Sicilia - Ricordo n° 4


Tienimi per mano, stammi più vicino. Il tuo viso sul mio petto, non tornare più.
La prima sigaretta che tenni in mano era una marlboro, ma avrei voluto fosse una merit. C’era la pubblicità di una barca a vela che avanzava in aperto oceano e il pianoforte di Wim Mertens che controbilanciava l’aggressività delle onde. Mi bastava per metterla una spanna sopra le altre marche.
Mi isolavo. Ogni sera, mi allontanavo da mamma e papà seduti al tavolino per mettermi gambe incrociate su un muretto a fare niente. Ad aspettare. Convinto che il problema fosse quella vicinanza infantile. Aspettare che qualcuno si accorgesse di un adolescente nel mezzo del mare di Sicilia. Non una gran strategia, a dire il vero, infatti persi mezza vacanza ad aspettare come Godot.
Giorno numero otto, quando iniziavo a pensare che il problema forse non erano mamma e papà, sento una voce di donna dire “Ciao”. Donna mulatta. Il primo approccio a una ragazza, cioè... d’accordo, il primo approccio da una ragazza. Diamine, come cambiano le cose in vacanza.
Dopo altri tre giorni, al villaggio, sulla mia donna mulatta iniziarono a girare strane storie. Chi l’ha vista baciarsi con quello. Chi vocifera sia stata a letto con un cameriere. Fatto sta che noi continuavamo a incontrarci ogni sera a venti metri dal tavolino dove sedevano i miei, con me parlava e basta.
Stanza numero 74. Interno. Siamo in una ventina, circa. Gioco della bottiglia. Posso uno (penitenza), posso due (abbraccio), posso tre (bacio, ovviamente con lingua) e così via. Il collo della bottiglia indica lei. Merda. Dice: “voglio levarmi uno sfizio”. Merda. “posso tre?”. Merda, davanti a tutti. Non lo chiede a me, ma al mio compagno di sigaretta. Che ovviamente dice di sì. Davnti ai miei occhi. Poi aggiunge “Scusa”, guardandomi con dolcezza. Davanti a tutti. Ecco, penso, che carina che si preoccupa per me. Peccato che non riesca a sollevare lo sguardo da terra.
“Ma possibile che da quando ti conosco hai scopato con mezzo villaggio e sono l’unico che manco t’ha baciato?”
“E allora cosa aspetti???? Fallo!!”
Non me lo faccio ripetere, dovesse cambiare idea. Le lingue incrociate, movimenti veloci, seta che scivola via. Fine. Beh, insomma, non proprio. Finiamo giù sulla scogliera, ci assentiamo per un paio di ore, la madre la cerca, tutto il villaggio la cerca. Vendetta, davanti a tutti. Era con me.
Sì, quella sera. Il giorno dopo già non più ma questo è un'altra storia, almen per lei.
Come quando condividevo le prime marlboro con il mio compagno di sigaretta e altri. Tutti mi guardavano aspettando che buttassi fuori il fumo. Ma niente. Mi ci volle un po’ prima di capire che il fumo andava respirato e non ingoiato. Mi sentivo gonfio dopo aver fumato.
Non capivo se fosse stata una vittoria o una sconfitta. Scoprire come si bacia grazie a una creatura mulatta che avrà condiviso baci con mezzo villaggio. Ero lì che pensavo e cercavo di capire, mentre Francesca bella di una bellezza che nulla aveva a che fare con questo mondo si negava a tutti i ragazzi dicendo di essere fidanzata.
Ultimo giorno, quello dei saluti. Si va in discoteca all’aperto. La mia creatura mulatta è già abbracciata a un ragazzo. Ma non mi importa. Anzi, prendo l’iniziativa.
“Posso tre?”
“Sì”, risponde Francesca.
La musica si ferma su Raf che canta cosa rimarrà di questi anni ottanta. Le voci si attutiscono, non mi importa neanche più di essere davanti a tutti. Incrocio lento e soffuso, le lingue sono protuberanze caratteriali e noi siamo velluto. Il vento di Sicilia si ferma. La ragazza più bella che abbia mai baciato. Misteri dell’attrazione. Poi iniziamo a ballare, credo si sia pentita immediatamente di quello che aveva fatto. Mai stato un gran ballerino, tanto meno in discoteca.
Quindici anni e un mare davanti.

Canzoni del mese:

Radical Face, Welcome Home
Bonnie “Prince” Billy, Same Love that Makes Me Laugh
Moina & Johnson, Each Star Marks a Day
Scott Matthews, White Horse
Beirut, Elephant Gun
Alsdair Roberts, The Cruel Mother

domenica 25 agosto 2013

Via Teofilo Patini, angolo Via Salviati.


Stazione metropolitana di Rebibbia, ore 7:30.

Per strada, sul bus, in metro. Ovunque puzza di fogna e piscio. Sedili evirati. Facce nere, facce maghreb, facce mulatte, puzze zingare, donne incinte. marmocchi urlanti neri, occhi mandorlati, capelli crespi arruffati. Sembra si muovano a branchi, che cazzo spereranno mai di trovare qui. Dimmi cosa c’entro io.
Mi fa schifo la periferia. Odio questa città. Odio quella che era la mia città e che ora non lo è più, perché l’hanno sfigurata. Loro con la loro povertà puzzolente e stentata. E qualcuno avrebbe dovuto fermarli o cacciarli, che se avessi qualche grado in più ogni tanto anch’io lo premerei quel bottone lì, guarda che anch’io non sono più né di destra né di sinistra.
E poi non sanno stare in fila, tutti ammassati intorno allo sportello, che sarà mai una fila –pensano, stanne certo- e perché non possiamo fare a gomitate e scannarci per pretendere a muso duro chissacché. Meno male che ci stanno i vetri divisori, altrimenti ce li troveremmo addosso. Che schifo che mi fanno. Hanno dello scimmiesco.

***

Zona Tor Sapienza, fermata del bus 437. Ore 12:17.
 
Capelli chiari e lunghi, sporchi. Viso asciutto, forse è uno slavo del Nord, corpo alto e magro coperto da una canottiera bianca, uno sguardo che sa andare a fondo, uno sguardo libero. E’ un bell’uomo, penso. Sale e getta delle occhiate verso di me, mi guarda mentre leggo. Sta per chiedermi qualcosa.

***

Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via Salviati, ore 10:36.

Dalle nove a mezzogiorno. Tutti i santi giorni di merda a smaltire i pellegrinaggi di questi qui. In che Dio crederanno, poi. Sono solo una massa di straccioni, secondo me non credono più in niente, se avranno poi mai creduto in qualcosa. Vogliono solo pretendere, non ascoltano neanche le risposte, loro pretendono perché non hanno niente da perdere e niente da guadagnare.

***

Cortile dell’Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via Salviati, ore 10:46.

Dalle nove a mezzogiorno. Ogni giorno li vedo arrivare a gruppi, mi chiedono dove devono andare per questo e per quello. Fino a qualche anno fa non avrei mai immaginato che al mondo ci fossero così tante anime vaganti e così tanti luoghi al mondo, ognuno con la sua gente, ognuna con vestiti diversi. Ci dicono che dobbiamo essere gentili, ma spesso neanche capisco cosa vogliono chiedermi. Però non ho niente contro di loro, sarà che il quartiere dove sono cresciuti non sarà tanto diverso dal mio. Sarà che neanch’io ci sto bene in questa città, sarà che potrei imparare qualcosa da loro.

***

Zona Tor Sapienza, sul bus 437. Ore 12:21.

Ha gli occhi addosso a me, smetto di leggere e aspetto senza sollevare la testa.
“Studia scienze politiche?”
“No, insegno... ma anche gli insegnanti studiano”. Non fa caso alle ultime parole.
“Insegna... scienze politiche?”
“No. Insegno storia. Storia della Cina.”
“Cina. E dove?”
“All’università. E lei?”
“Io? Io so tutto. La Cina... è tutta colpa nostra. Gli italiani, è colpa degli italiani. Nagasaki e Hiroshima.”
“Ma Nagasaki e Hiroshima sono in Giappone”.
“Giappone? –aggrotta le sopracciglia stupito- Nagasaki e Hiroshima... Cina e Giappone non fa differenza, è tutta colpa degli italiani. C’è il cardinale”.
“Magari anche un po’ degli americani?”
“Gli americani... e chi sono gli americani? sono cristiani, gli antichi romani”.

***

Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via Salviati, ore 11:48.

Meno male che finisce, ogni giorno. Peccato che ricomincia, ogni giorno. Che vorranno mai da questa città vituperata, da questa nazione con la bandiera umiliata da un popolo indegno. Che vorranno mai, che gli sputi in faccia li prendo io caro Ministro. Che qua sembriamo gente di frontiera. Come il west, come il Far West, come coloni abbandonati a noi stessi. Ad aiutare delinquenti a piantar radici per una rata di mutuo in più. Fottuti bastardi. Tutti, nessuno escluso

***

Zona Tor Sapienza, sul bus 437. Ore 12:25.

“Fuma?”, mi chiede.
“no, ho smesso...”
“Lei è di dove?”
“Di qui, di Roma. Lei?”
“Sono italiano”
“E si sente italiano?”
“No, gli italiani hanno fatto tutto loro, è colpa loro. Mi vergogno degli italiani. Il cardinale. Dicono bugie, ti fanno credere certe cose. Ma io so...”

***

Cortile dell’Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via Salviati, ore 12:00.

Ogni giorno finisce e inizia di nuovo. Ogni giorno dalla caserma a questo cortile, dal cortile alla caserma, a guardare quanta gente è abbandonata a se stessa. Sono un soldato dell’esercito italiano, ho diciannove anni e vivrò di un'altra vita.

***

Stazione metropolitana di Rebibbia, ore 12:28

“Io non la capisco, e poi...” –si ritrae infastidito, si alza, cambia posto e si allontana- “fumi.”
“No, ho smesso”. Sono intimorito. Il bus si ferma.
Indica la mia bocca. So di non avere lavato i denti stamattina e so di non avere mangiato nulla da quando mi sono alzato. Non volevo prendermi cura di me. Sento la sua puzza, mi soffermo sulla sua puzza.
“Siamo arrivati”.
“Sì –mi guarda deluso-, arrivati dove...”
Mi avvio alla porta. “Buona giornata”.
“Per me non esistono buone giornate”.
Fingo sorpresa: “Perché?”
Si avvia a passo spedito, guarda per terra: “Non ti capisco, non penso che sei un buon insegnante. Se insegni quello che c’è lì” –indica il libro-“quello è quello che ti raccontano, il cardinale”.
Lo seguo: “Insegno anche a non fidarsi di quello che c’è scritto sui libri”.
Si allontana: “Non sei un buon insegnante, sei il tipico italiano. Bugiardo.”
“Mi conosci da due minuti e già sai che sono bugiardo...”
“Guarda come sei vestito, di nero. Un insegnante vestito di nero, sei come gli altri insegnanti, sei peggio, lo sai che colore è...”
Sono le sue ultime parole. Penso che non si può sempre fuggire dagli altri. Che a volte bisogna fare qualcosa. Mi chiedo quanti penseranno la stessa cosa di me.

***

Ufficio immigrazione di Via Teofilo Patini, angolo Via Salviati, ore 12:30.

Un giorno me ne andrò lontano da questo schifo. Dalla merda e dal piscio che avete portato da casa vostra. Dai sedili evirati e dalle bandiere vituperate. Me ne andrò da questa periferia di merda. E voi resterete qui. Ancora ammassati allo sportello, come bestie che pretendono e basta. E io avrò pagato il mio mutuo.

***

Stazione metropolitana di Rebibbia, ore 12:33.

Me lo ritrovo giù in banchina. Abbassa lo sguardo e finge di non vedermi. Gli passo davanti e vado oltre. Arriva il metrò. Non sale. Io sì. Era un bell’uomo. E’ libero, è solo. Non ragiona ma il ragionamento serve nella società, non a sopravvivere. Quello è tutto istinto. Ma ha delle reminiscenze, già, lui sa tutto. Ci sono momenti in cui uno capisce che non può stare sempre a guardare. Non capisco se scrivere e insegnare significhi stare a guardare. Io sto ancora a guardare. Lui ha smesso anche di guardare.
Sul metrò un uomo sulla sessantina bracca una signora senza lasciarle il passo:
“Che ce l’hai un euro?”
Nessuna risposta.
“Che ce l’hai un euro?”
Nessuna risposta.
“Che ce l’hai un euro?”
Nessuna risposta. La signora riesce a divincolarsi e va avanti. Lui si precipita verso di me.
“Che ce l’hai un euro?”
Lo guardo negli occhi e scuoto la testa. Non mi crede ma si allontana lo stesso.
 
Canzoni del mese:
The Tallest Man in the World, The Dreamer
The Paper Kites, Bloom
Princess Chelsea, The Cigarette Duet

domenica 4 agosto 2013

Apnee


Percezione quotidiana pre-parto (voglio arrivare a una conclusione al giorno, non importa se stupida o no): una canzone non è bella perché è bella.
In macchina, luci spente e una saracinesca tirata su, con lo sguardo fisso sulla via d’uscita e d’ascesa al vivere fuori. Un momento di raccoglimento subacqueo, prima di scegliere di riemergere sopra la soglia e ghermire per via endovenosa la vita nel sociale. Il mio respiro dilatato ha avuto un nome, un titolo: Summertime is coming, inframmezzato a storie di cani in aule comunali. Novantasetteesette.
Squarcio. Al mare, nel corso di un’immersione, c’è un momento in cui si rinuncia, dopo essere sceso a fondo e avere cercato di sospingere il proprio peso pressato più in là di qualcosa che non è dato sapere. L’apnea, il limite umano. In quel momento, sin da bambino, pesce tra i pesci, mi fermavo per pochi istanti. Distendevo i muscoli e rilassavo l’assenza di respiro, perché mentre risalivo verso la soglia del mare vedevo la luce del sole assorbita nell’acqua –squarcio di tessuto, rumore immesso- e il mio riemergere era salvezza senza fretta, un abbraccio, calore rassicurante che non poteva temere di esaurire le forze.
Ecco, è andata più o meno così. Prima di riemergere, su un sedile, ho disteso tutti i muscoli per godere dell’attimo che precede l’ascesa, quel momento di luce e poco altro (musica) in cui non è dato morire e se si muore lo si fa in modo incredibilmente sereno. Ho pensato che non esistono belle canzoni, sono le circostanze che ruotano intorno all’ascolto a fare la bellezza di una canzone. Che la bellezza non appartiene a chi la esercita ma a chi ne subisce il fascino. Che il creatore non controlla la bellezza di una creazione e per questo lascia una parte di apparteneza a miliardi di potenziali destinatari. La creazione è atto incontrollato e illimitato.
La bellezza di Summertime is coming non è unica, ma relativa al vissuto di chi l’ha colta. La bellezza di Summertime is coming è astratta dal tempo, prescinde dal testo, dalla melodia, dalla tecnica e dall’arrangiamento. Questo è il mio modo di ascoltare, posso anche fottermene di capire un testo in inglese o posso anche capire solo il testo e fottermene di una melodia banale. La bellezza di Summertime is coming è astratta dal tempo, per quel momento unico in cui l’ho ascoltata, per il mio vissuto di questi giorni, che ho sposato a un significato presunto, tutt’al più intuito, ma privo di riscontri se non nell’ideale.
C’è chi ritiene che esista un canale di comunicazione impercettibile tra chi scrive e chi legge, tra chi parla e chi ascolta, tra chi guarda e chi è visto, tra chi ripone la mano e chi viene toccato. C’è un intento alla base della creazione, la trasmissione di un significato, ma nessuno mai saprà cosa parte e cosa arriva. Come nei viaggi, quando al di là del nome di due stazioni o di due aeroporti poco altro si sa dei luoghi da dove veniamo e verso cui andiamo. Che tutt’al più possono essere presunti, e ditemi se viaggiare non è bello per questo (dopo un viaggio la cosa che mi riesce meno è raccontare, rispondere alle domande su un posto).
Summertime is coming non è niente di più che una canzone come tante, non mi stupirei se qualcuno mi dicesse che esistono milioni di pezzi simili, ma da oggi significa qualcosa che nessun altra canzone significherà e vivrà di una bellezza unica, retta da un passaggio di stato (da un box auto all’esterno) che è apnea, da un’esperienza di vita (da osservazione ad atto) che è parto e dalla voce di Paul Blanks che è... non so cosa sia, ma mi tocca a fondo e subito dopo mi fa venire voglia di sentire Matt Elliot, Micah P. Hinson, Patrick Watson, Eddie Wedder (e non Chris Cornell), Mark Lanegan, Snah Ryan, Antony, Jonsi e Jeff.

Altro? sì, quanto è americana (e che pena) Cat Power.
E ho iniziato a leggere 54, finalmente. Dovunque c’è azione c’è rivoluzione, significa che sono tornato ad agire.

Can we waste some more times just in colliding in space?
da Paul Banks, Sumertime is coming (2012)

lunedì 29 luglio 2013

Hanno tutti ragione


Oltre a star dietro a una macchina da presa scrive pure, Paolo Sorrentino. Con gli stessi limiti che gli si attribuiscono da regista: un certo squilibrio nel dosare le parole, a sovraccaricare con esuberanza riflessiva. E un certo eccesso nel gusto del pathos, dell’emotività –trattenuta, sviscerata o manifesta che sia. È vero, son limiti che mi sembrano condivisibili, con tutto l’amore che provo per i suoi lavori. Ma chissenfrega della perfezione, quando ci si trova di fronte a una riflessione di tale onestà e intelligenza umana. Guardarlo al cinema ti astrae dal mondo (“È per questo che non vado mai al cinema. Quando lo spettacolo finisce, fuori c’è la caducità della normalità. E questa escalation brutale, violenta, mi fa soffrire come un povero uomo tra i poveri uomini. Mi fa sentire fuori dalla vita alla quale vorrei appartenere per sempre. Quella del film. Fuori, è tutto uno stupro”), leggerlo è un tuffo nella profondità che la percezione dell’animo umano può raggiungere di fronte alla vita, alla natura e alla coscienza. Eccolo qui un pezzo di Sorrentino, un passaggio tra i più rappresentativi di quel presupposto de La grande bellezza che è stato Hanno tutti ragione sotto forma di libro:

“... E tutti lì a tormentarsi su queste quattro lettere che toglie loro il respiro: figa, figa, figa, figa, figa.
Non dormono tutta la notte, l’appetito se ne va, si bombardano di schifezze da tutte le parti per avere la cosiddetta erezione (che brutta parola, erezione!) per introdurre, introdurre, introdurre.
Questo l’obiettivo, lo scopo, la ragione di vita. Cosa c’è attorno? Niente. Non sentite odore di morte? La morte non è la scomparsa del desiderio, quella alla mia età si fa irreversibile e fisiologica. Che cazzo ci vuoi fare? Macché! La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il desiderio è stato sempre perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e variopinta del linguaggio. Vanno a braccetto , come le commarelle.
Ma non è sempre stato così. Sessantasei anni fa, mia moglie si è voltata e mi ha guardato come non mi aveva mai guardato. Mi ha guardato come il sentiero s’illumina d’incanto, mi ha guardato come il bambino divertito dagli schizzi d’acqua. Così mi ha guardato ed è stata la rivoluzione di me stesso. Non sto dicendo che mi sono innamorato. Sto dicendo che mi sono eccitato l’anima per una torsione del collo. Vero Carla? Te lo ricordi, Carla? Eravamo ragazzi, Carla. Tutta l’incredulità del mondo ci cadeva addosso senza pudore. E quelle vampate nella scoperta della tenerezza, Carla, ma non valevamo più della vita stessa? Io penso di sì, Carla. Annuiscimi ancora una volta, Carla. Lo hai fatto per tutta la vita, non me lo negare adesso. Adesso che trascorro le giornate a salutare il mondo perché ogni giornata si preannncia come l’ultima. Annuiscimi ancora. Abbiamo sudato le nostre ascelle con lacrime di commossa partecipazione mentre ci baciavamo a Capri. Dentro i labirintiti dell’estate perenne. E un attimo dopo progettavamo la grandezza della famiglia. Progettavamo la responsabilità, come antidoto a tutti i mali esterni che pure ci sono stati. La responsabilità, l’unico rimedio scientifico contro l’horror vacui. La partecipazione emotiva a tutte le sfumature uno dell’altro. Una morbosità indispensabile, Carla. Sentire le proprie spalle accarezzate dalla mano libera, Carla.
Ma dove stavamo? Sospesi e galleggianti nell’istante. Se solo un dio avesse potuto cristallizzare il nostro sentire. Farci stalattiti umane per tutto il tempo. Non avremmo trascorso i successivi sessant’anni ad acchiappare disperatamente l’istante andato e che non è tornato mai più, perché corrotto dal nostro sapere, dal nostro aver provato, Carla. Abbiamo vagato in coppia, come i barboni all’angolo della strada, alla ricerca non del Tavernello, ma dell’istante e degli istanti amabili. Ma come è stato bello, Carla, il tempo in cui l’ingenuità era una risorsa e l’ignoranza un concentrato di saperi. E i fiori dell’estate che opprimevano i nostri cuori, anche questo ci dicevamo, addensati dentro una retorica possibile e dannunziana, perché esclusiva e condivisa dentro i nostri occhi tristi e felici, l’unica retorica possibile, Carla. Vivere insieme, Carla, come noi abbiamo scelto, ierofanici, ossidionali, ineffabili, ha voluto significare anche cogliere il senso del ridicolo di tutti e due, da soli e insieme, e ammirare, con forza e perseveranza straordinarie, quel senso del ridicolo che scappa via dalle gonne e dai pantaloni, come la vipera che vedemmo a Maratea sotto brutti fuochi d’artificio. Estenuati dalle nostre stesse, infinite parole, fluttuati nei rigurgiti rumorosi della noia e delle noie reciproche, eppure estaticamente assuefatti a quell’idea di unicità, di insostituibilità che non ci ha reso unici, dal momento che nessuno è unico, ma insostituibili sì.
Ecco, questo siamo stati, insostituibili.
L’amore è l’insostituibilità...

Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione, Milano: Feltrinelli, 2010.


martedì 28 maggio 2013

Per sempre insieme, dieci minuti e poco più - Ricordo n° 3


Lei è in vita. Io no. Lei ama esternare, condividere, ridere, emozionarsi, provare, comunicare, conoscere, intraprendere, andare un po’ più in là per vedere cosa succede. Io ritaglio stasi, punti di osservazione, scavo rifugi, guardo non visto passanti e personaggi di fantasia, moderno Soares non acclamato. Per un esercizio estetico che implode e si esaurisce in se stesso, un orgasmo controllato con i guanti, che scorre sensi e intelletto.
Ma allora perché camminiamo sulla stessa strada, stesso marciapiede, stessa direzione, stessa andatura uno di fianco all’altro? E parliamo, ridi e ti appoggi al mio braccio. Pensa, sorrido anch’io. 2006. Uno, due, tre... sette anni. Probabilmente a luglio, seconda decade. Dopo non so quanti anni è stato il giorno in cui una donna mi ha abbracciato e io mi sono ritratto, ma non sono riuscito a evitarla. L’ho sentita su di me. Ho avvertito le braccia che mi cingevano, il volto sul mio petto, respiro, occhi spenti e capelli che scivolavano lentamente sulla mia pelle.
Apprezzo il tuo coraggio d’essere, sei la copia del mio immaginario ideale, se solo non fossi così contenuto, con emozioni involute e ritratte. Ho passato gli ultimi giorni a pensare ai nostri passi sovrapposti. Passi senza scarpe e con piedi nascosti, perché per tutti e due (ma per motivi diversi) i piedi rendono vulnerabili. Porta d’accesso discreta sull’animo degli estranei. Non gli occhi, non i gesti, ma i piedi. Poi, per carità, dopo un’ora le nostre impronte non erano più sovrapposte e già prendevano strade diverse.

Citazione del mese:
"Mi domando come facciano le coppie che devono convivere giorno dopo giorno. Non hanno intervalli in cui recuperare lo stupore per il corpo dell’altro" (Nirmal Verma, Weekend)
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mercoledì 22 maggio 2013

Cose di questo mondo – Esploratori d’altri tempi


C’erano una volta Giovanni da Pian del Carpine, Ibn Battuta, Zheng He, Niccolò da Conti, Ferdinando Magellano, Richard F. Burton, Sven Hedin e tanti altri.
Questa volta invece c’è Jamal. Anzi, c’è Jamal e c’era Enayatullah.
Un viaggio al contrario, non per esplorare ma per implorare una vita a Londra. I giochini americani dalle parti del petrolio vanno avanti da più di mezzo secolo. Gli aerei si sono schiantati da meno di un anno e i rifugiati afghani affollano i campi pakistani di Peshawar. Iran. Turchia. Italia. Francia. Gran Bretagna. Il traffico umano si riflette in un giro di soldi fatto di truffe e stenti, fino a perderci la vita. Perché un essere umano deve scegliere tutto questo. Perché non può semplicemente cercare di strappare alla sua terra una lurida esistenza, fatta di senso del vivere e di attesa della morte.
Le distanze sono incolmabili. Per quanto potrà mai provarci, uno che sguazza nella società dei consumi non saprà mai chi è un profugo. Non ne capirà mai niente, perché mentre è lì in un pub di San Lorenzo a scolarsi birre e bottiglie di vino con lo stipendio che non ha, il clandestino è coperto di luci in testa come un pagliaccio travestito a lutto. Non consuma. Lampadine, grattaschiena, allarmi e aeroplanini come un albero di natale con le gambe, per fare qualche chilometro in più e arrivare dove? Più lontano del pub sotto casa, perché guarda alla vita da un’altra angolatura, quella di chi nasce nelle privazioni, dall’altra parte della sera.

Canzoni (+video) del mese:
Riccardo Sinigallia: Solo per te
Spiral 69, Love is for losers
Tiromancino, Blu
...

sabato 11 maggio 2013

Siena

L'età della transizione - XII tappa 
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Hanno tutto. Prati. Colline. Città. Mercanti. Banche. Arti. Le vigne sono filari e venature, gli uliveti macchie cadenzate a misura d’uomo. Quando le nuvole si fanno terse all’altezza dei prati irridescenti, gli umani caduci hanno accesso alle trame incavate della natura. Assistono staccati appassiti: estremo che si riflette nel suo opposto, di cui ha fame e si nutre come bestia condannata all’esistenza. Non è un caso che qui convergano coloro che scavano nello spirito, ritratti nei loro anfratti e sfiorati dai pellegrini. Santi e peccatori. Ancora oggi, ancora oggi che l’uomo entra nel secolo della Rinascita. Oggi si rinasce dal dogma dell’uomo creatura di Dio, che aspira e decade. Oggi le parole sono stampate sui libri, le prospettive fanno reali tele e affreschi. Mercanti da ogni dove e ogni razza entrano nelle cinte murarie delle signorie con lettere di cambio. È l’avvento del capitale, che innalza la vita umana al movimento, al riflusso delle genti. Dalle terre papali ho traversato i colli senesi fino al borgo delle ventitre contrade, affollato di ligrittieri e speziali, vasai e artisti, battilana e setaioli, tessitori e cuoiai, falegnami e fabbri, e ancora tintori, calzolai, fornai, notai, orafi e banchieri. Qui nasce qualcosa di nuovo, qui si leva la città.


lunedì 29 aprile 2013

Sulla crisi

Riflessione incidentale, una volta tanto che accendo la tv. Enrico Lucci non è nessuno, fa il suo lavoro, viene pagato e al mondo esistono una miriade di lavori più utili, più coraggiosi, meno visibili e più impegnativi. Enrico Lucci non è un eroe. Ma mi piace da morire.
Così succede che si trova nelle condizioni di poter recapitare dei messaggi che, con un minimo di curiosità in più, molte persone avrebbero potuto acquisire per conto proprio; messaggi che in molti prima di lui hanno provato a diffondere senza però possedere le dovute ascendenze. La società è complessa e composta da moltitudini di individui, è difficile trovarsi e talvolta anche cercarsi o semplicemente ascoltarsi. Per cui anche i Lucci hanno il loro perché.
Ieri sera ha proposto una serie di persone che hanno sviluppato delle idee ritagliandosi un proprio spazio nella società, a prescindere dalla crisi. "Non c'è mai l'idea buona, l'idea buona viene facendola" e mettendo in gioco quel che si ha.
Per vari motivi, io sono tra quelli che non credo potranno mai agire solo sulla forza delle proprie idee e non so come attraverserò la crisi di questi anni. Ma anche a uno come me quei sette minuti hanno dato forza e fiducia.
Einstein è facile citarlo, più difficile è maturare per conto proprio certe prospettive sulla vita:

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E' nella crisi che sorgono l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera se stesso senza essere 'superato'. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.
La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L'inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla".

(Albert Einstein, Il mondo come io lo vedo, 1931)

Canzone del mese (nel nome della Liberazione):

Bandajorona, Roma città persa
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giovedì 11 aprile 2013

Er poeta se n'è annato

Il mio regalo sarà quello di andarmene in silenzio.
Ho smesso di generare affetti da anni, lo considero un atto d’amore, l’ultimo che ho scelto nella mia esistenza.
Da giovane non ero così, facevo della passione la mia sostanza di vita, carne e sangue da fendere e lasciar fluire. Ho avuto anche un periodo di vita normale, oh, sì! Con moglie, con figli.
Dopo però la schiena si è incurvata. Non ricordo esattamente quando è iniziato, ma è normale. Dai semplici indizi arriva l’accusa, dalla complessità dei sentimenti umani prendono forma pieghe, e da lì grovigli che sono inestricabili. Poi mi sono svegliato. Era mattino, come al solito, ma non capivo più dove mi trovassi, perché ero lì, in quel punto tra i tanti. E comparve la morte, quella vera, così diversa dalla morte decantata in versi. Proprio lì, al mio fianco. Prendeva le facce delle persone che mi erano vicine. Le storpiava.
Sbattei la testa contro il muro, sedici volte. Non era cambiato nulla intorno.
Così me ne sono andato: sguardi, sguardi alle cose che più ho amato e poi via. La gente poco a poco dimenticò, solo di tanto in tanto qualcuno si chiedeva “chissà dove sarà finito il vecchio”. Il tempo di uno sguardo distolto e poi di nuovo tutti lì, a ridere davanti al bicchierino, con un’altra storia da inventare. In società. Vi ho amato, cari tutti, molto più di quanto vi abbia dato possibilità di amarmi.
Cuore di passante in transito. Che guarda e scruta l’agire umano senza aspettative, senza desiderio di comprensione.
Mi sono sempre rintanato, ogni giorno sempre un po’ di più. Ho scoperto le mie rughe nuove e ho perso la mia età. Non me ne vado per vedere se c’è qualcosa in più da scoprire, me ne vado perché le mani e il fegato hanno la pelle lacera e non ho più forza per rimanere aggrappato. Me ne vado sbattendo la porta, da contemplatore.
 È un gran regalo questo qua, perché nessuno piangerà sulla mia tomba. Forse vigliacco, forse coraggioso tra i coraggiosi. Quello che vi ha rifiutato in tutto e per tutto senza smettere di amarvi.

Canzoni del mese:
Muro del canto, La spina
Ardecore, Miniera
Marco Parente, Il giardino delle cose vaghe 
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domenica 24 marzo 2013

A scuola di comunismo - Ricordo n° 2

Ma chi cazzo saranno mai i suoi genitori. Ma che cazzo vorranno mai dire i loro discorsi.
D’accordo, contro il sistema, contro il mercato e per la rivoluzione. Io nella mia vita avevo partecipato solo a due autogestioni; quando avevamo fatto finta di occupare, mezz’ora dopo ero già fuori, ancora un’altra mezz’ora e sarebbe arrivata la polizia. Mentre io richiudevo la porta di casa ed entravo in bagno a farmi una sega. Sono cresciuto al confine tra periferia e piccola borghesia cattolica, neanche sapevo chi fossero Ferretti-Zamboni-Canali-Maroccolo, che cazzo si poteva pretendere che ne capissi di Engels. A quei tempi la cosa più simile al comunismo che potevo immaginare era l’amore libero.
I suoi capelli neanche li capivo. Ricci come solo i neri sanno averli. Con la pelle andava già meglio, quel mulatto che sapeva di bellezza anche per uno come me, che studiava solo per arrivare al quieto vivere, ignaro totale dei suoi interessi. Lei, anche lei, non sapevo da dove tirasse fuori tutta questa coscienza di classe a scuola di comunismo. Avrò fatto cinque o sei incontri, un paio di porta a porta per il giornale autofinanziato e mi sono inculato un libro che neanche avrei finito (sempre ‘sta lingua da professori che parla del popolo senza sapere parlare al popolo). Tutto questo perché non avevo avuto le palle di argomentare che non me ne fregava un cazzo di Marx. Meno male che poi ho iniziato a vedere i suoi ricci fuori da quello scantinato da aspiranti cospiratori.
Ci leggevamo le nostre poesie e scoprivo il suo corpo di donna. Non so se sia stato amore, forse a modo suo. A distanza di anni mi disse che ripensava a noi come a qualcosa di puro. Nelle mie rimembranze non l’avevo mai vista in questi termini, io rivedevo solo la voglia di toccarla ovunque e comunque. Era proprio quello che intendeva lei. Nelle porcate alternate a curiosità e poesia si cullava la nostra purezza.
Neanche come aspiranti militanti facemmo molta strada. Lei finì in un MacDonald a friggere patatine e la nostra storia di amore e rivoluzione andò a puttane, lasciando fotografie dagli angoli bruciacchiati nei cassetti richiusi. Mi cercava e non mi lasciavo trovare. Voleva una reazione e io pensavo meno male forse ha capito e me la levo dai coglioni, sotto alla prossima.
In questa storia non feci la figura di un eroe, ma quella del coglione. Sarebbe andata così per altri due tre anni, ma non c’è problema: in amore prima o poi tocca a tutti e presto le avrei prese anch’io di santa ragione.
Passarono anni prima che ricevetti una sua lettera. Una lettera con francobollo. Nella cassetta della posta. Lei. Proprio lei. Cominciammo a vederci da persone mature, ma le mancava qualcosa, credo le dispiacesse per quella purezza andata. Eravamo stonati.

Canzoni del mese:
Rino Gaetano, I miei sogni di anarchia
Alessandro Mannarino, Maddalena
Raffaello Simeoni, Anema e colore
Afterhours canta Area per radio alice, Gioia e rivoluzione
Daniele Silvestri, Le strade di Francia
Unorsominore, Ci hanno preso tutto
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giovedì 14 marzo 2013

Zurigo

L'età della transizione - XI tappa


Mastica e crepa. In una landa desolata. Dove c’è solo neve e qualche bosco spoglio. Arrivammo alle cascate nel pomeriggio, seguendo i binari. Stanchi. Affamati non so di che. Le guardammo in silenzio. Un minuto. Due. Tutta quest’acqua che scorre, tanto ardore per cosa. Dopo mezz’ora eravamo di nuovo lungo i binari, zaino in spalla. Neve e qualche bosco spoglio. L’inverno si è inghiottito la gente il mondo i suoni i rumori. Neve. Passammo per Andelfingen e ci accampammo alle porte di Rapperswill, vicino al cimitero del castello e sui bordi del lago. A spaventarmi non erano le anime dei morti, nei loro sepolcri a forma d’arte, ma i vivi. I vivi, senza sorrisi. Che parlavano solo se interrogati e dopo aver risposto se ne andavano. Capo chino. Il giorno dopo ci perdemmo. La nebbia era bassissima e finimmo non so come alle porte di Lucerna, località Kriens. Salimmo. Salimmo. Salimmo. Salimmo fino a non averne più e a riscoprire lo stupore. Dove le nuvole stanno ai tuoi piedi e all’altezza dello sguardo ci sono solo le vette. Levigate dal sole. Limate dal vento. Distese dalla neve. Sopite dal freddo calore di mezzogiorno. Scavai la montagna e girai intorno alla sua cresta per guardare non visto le cime intorno. Seguii il profilo nel ghiaccio e scrutai, fumo alla bocca mani gelate. Ma scrutai. Alle spalle, guidato dall’animo finalmente in pace del quinto prefetto di Giudea. Nei giorni successivi riposammo tra Lucerna e Zurigo. Ai piedi dei campanili smeraldo più sottili e scagliati al cielo che avessi mai visto in vita mia. E le loro chiese. Spoglie di icone, dove non onorano dei con ori, olii e marmi. E le pitture su pallide mura severe, austere e ben disposte, è questa la Riforma che mi hanno raccontato. Di quando più di quattrocento anni fa la cultura convergeva sulle lande di Germania, nelle aule e nei corsi universitari del Nord al centro d’Europa. Seilengraben e dintorni.

domenica 10 marzo 2013

In-amore, in-gioia, in-dolore


给你土上的灰
看怎么样能造成生命的坛
给你海里的盐
让你品尝生命的伤口

你经过远方的边境
看过世界各别的表情
在河的对岸
等你的爱人充满精神

阳光还在看着我
把自己的手放在你手里
叶子上已经起了皱纹
像人们一样娇嫩

从土到云又到天上的月亮
人类的悲剧也是人类的喜剧
寻找回音
渴望平静
落到激情
实现平衡

给你土上的灰
看怎么样能造成生命的坛
给你海里的盐
让你品尝生命的伤口


Ti do’ la cenere che è sulla terra/ per vedere come riesci a dare forma all’altare della vita/ Ti do’ il sale che è nel mare/ per farti assaggiare le ferite della vita.
Hai passato confini lontani/ Hai visto l’espressione senza eguali del mondo/ Sull’altra sponda del fiume/ aspetti che il tuo amato si riempia di coscienza.
I raggi del sole mi stanno ancora guardando/ mentre metto la mia mano nella tua/ Sulle foglie sono già cresciute le rughe/ sono come le persone, fragili allo stesso modo.
Dalla terra alle nuvole, fino ancora alla luna che è sopra al cielo/ la tragedia umana è anche la commedia umana/ alla ricerca di echi/ avida di quiete/ in caduta nella passione/ nell’acquisizione di equilibrio.
Ti do’ la cenere che è sulla terra/ per vedere come riesci a dare forma all’altare della vita/ Ti do’ il sale che è nel mare/ per farti assaggiare le ferite della vita.

martedì 26 febbraio 2013

Sul voto

Non credo che il voto sia di per sé lo strumento di governo democratico più efficace a disposizione della popolazione, anzi mi sembra somigli più a un pericolo per la democrazia. Su cui arrovellarsi per esercitare il diritto al nulla. Sembra mangime per piccioni, molto più attiva la partecipazione sociale, o almeno io la vedo così.
La crisi, il grillismo, i discorsi sulla casta, il ritorno di Berlusconi, il decadimento della sinistra... tutti questi fattori mi hanno restituito slancio e 'senso di responsabilità' che in linea di principio -vista la premessa- non avrei dovuto provare prima delle elezioni. Magari di mezzo c'è anche la mia vita da semi disoccupato che mi lascia tempo se non altro per leggere di più. Probabile. E anche il fatto che sono le prime elezioni dopo anni che mi faccio in Italia, da italiano, per quanto potrò mai sentirmi italiano.
Comunque non mi sembra di averle dominate queste elezioni, resto ancora confuso di fronte alle parole propinate, non domino idee ben precise e rimango indietro. Ad esempio, mi piacerebbe capire una volta per tutte di cosa ci ha privato questa sinistra per essere così nulla da non esistere più. Voti alla mano, a prescindere da me. O sapere col senno di poi che fenomeno sia stato e sia ancora -per quanto strascicante- il berlusconismo. Avere quella chiarezza di vedute data dalla distanza. Lontano dai pro e dai contro urlati su carta stampata o nello schermo.
E la comunicazione. Che arma è la comunicazione e perché la gente più onesta spesso non sa comunicare o non riesce a far pervenire la propria comunicazione.
Poi il Movimento, capace di catalizzare le illusioni di tutti. Ma è davvero così "comunicativa" la Casaleggio e associati, o molto ce l'ha messo il contesto? E chi sono quelli del movimento, al di là del blog, dei gruppi di studio per i programmi, dell'incompetenza politica che travisa la purezza incontaminata, della democrazia che rifiuta chi non cade nella rete?
Anche se ero meglio disposto verso queste elezioni, devo rassegnarmi e riconoscere di essere rimasto troppo indietro per potere dare un voto di coscienza piena.
Una cosa che mi rimane è il commento di un utente alla riflessione sul significato di destra e sinistra fatta dal Wu Ming. Il tutto era finalizzato per tastare il grado di fascismo della compagnia grillina. L'utente in questione, tale VecioBaeordo, interviene per rispondere a un elettore del movimento che riconosceva a Grillo di aver interpretato l'alterità della classe politica dalla gente, prendendosi poi il merito -e il rischio- di avvicinare migliaglia di cittadini alla gestione della cosa pubblica. Il buon VecioBeardo conclude il suo commento con una frase per cui lo ringrazio, anche se non so chi sia. Almeno mi ha lasciato qualcosa di duraturo in queste elezioni per me così sfuggenti. Scrive:
«Dov’è la truffa? Nella parola “loro”.
E’ vero che c’è una frontiera, un di qui e un di là, e che la frontiera per il fatto di esistere produce uno o più “loro” da ognuna delle parti. La nostra parte animale funziona così, riflesso automatico. Ma sono convinto che ogni volta che mettiamo nel mirino qualche tipo di “loro” siamo in qualche modo fascisti a nostra insaputa, perché smettiamo di cercare un modo e cominciamo a cercare un colpevole. E così facendo, noi diventiamo colpevoli come “loro”, e i problemi restano dove sono».

Canzoni del mese:
Renzo Rubino, Il postino (amami uomo)
Ilaria Purceddu, In equilibrio

p.s. eh sì, anch'io ho visto sanremo, ma come succede in politica anche lì i miei non vincono mai.

venerdì 15 febbraio 2013

Lisbona - Porto

L'età della transizione - X tappa


Arrivati l’abbiamo fatto in silenzio. Silenzio senza strusciare ante ciabatte stanza a quattro piazze su una piastrella (blu su sfondo bianco di pescatori preti contadini artigiani) niente più. Qui. Niente condensa. Serrande abbassate. Sabato pomeriggio. Spazio intorno aria da respirare. Per strada. Costruzioni arroccate dal fiume in su. A tinte pastello. Glorie squassate di re e navigatori, neoclassici barocchi diroccati e vetri a pezzi. In bianco e nero. Dammi un’altra pasticceria, ridammi i tram scoscesi dell’Alfama e il pesce, dammi il pesce, un tinto e passo cadenzato al sole che accieca. Resta. Nei silenzi di Belem. Nel fondo vuoto dell’oceano a frantumare patimento, colpo su colpo sui moli di Boavista. Nel canto di chitarra che non è pena e non è gioia colmo ricolmo di sentimento consegnato al bello. Del silenzio fra me e te, soli in due, due anni e colpi di tosse. A rompere il silenzio e a sentirlo ricominciare laggiù, lungo il fiume e in prossimità del mare.

José Fialho Gouveia, Volta a dar.

venerdì 1 febbraio 2013

Il mio nome era Marlene

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Chissà quanti di loro ho già incrociato sui campi di battaglia. Con quanti di loro mi sono scontrato forse dieci anni fa, spalla contro spalla o ventre al cielo. A correr dietro a foghe passionali. Nell’impeto dell’autoriconoscimento in un gruppo, che parlava di sentimenti con una sola lingua, eccola lì, forbita e alt(è)ra: divine e cervelli bruciati con il vocabolario in mano. “Esisziale secco e disumano scarto di secondo che vale tanto quanto una vita”. Forse il primo verso che ho imparato a sbiascicare, aggrottato sulla mia sedia. Di sera. Mentre gli altri erano davanti alla televisione. Mentre io battevo a macchina e mi sentivo un poeta. Pensando alla beatrice di turno.
Chissà come sono cambiati in tutti questi anni. Quando andavamo ai concerti non facevo caso a loro, si sa, il palco è il palco. Forse oggi non li avrei riconosciuti lo stesso. Eppure ce n’erano tanti tra i trenta e i quaranta, tutti più tranquilli dei ventenni con cui sfogavo le mie pene tanti anni fa. D’altronde anch’io questa volta ho ascoltato in disparte, avviluppato in me stesso, lasciando la platea a chi ha passioni più fresche.
Loro no. Loro tre non sono cambiati. Con un basso in meno. Sempre dignitosi. Algidi. Viscerali. In bilico tra poesia e strada. Mi hanno sciorinato molte delle mie aspettative che non osavo aspettarmi. Mi hanno riportato a galla immagini del passato a cui non pensavo più. È strano, il passato, a volte è solo un pensiero su cui mi concentro ogni tanto per dimostrarmi di avere conservato tutto, senza avere buttato niente. E poi basta un niente, una canzone che sentivo tanti anni fa che me lo ripropone sotto forma di immagini vere. Vissute. Altro che pensieri e teorie. È stato un continuo: api regine, sollievi, comete, naufragi, ineluttabilità, bellezze... Cara è la fine, è davvero la fine. Mia. Con i tuoi versi lascio sognare qualcun’altro, io al mio turno mi sono logorato l’animo a forza di innamorarmi.
Il suo nome è Marlene, in onore a Marlene Dietrich e della figa di qualcun altra –non so chi, e i primi amori non si dimenticano mai. Tutt’al più non ci pensi per un po’.
Come relitto in fondo al suo incanto, affogherò in lei perdutamente.
Perdutamente.
Perdutamente.

Canzoni del mese:

Santo&Johnny, Papillon
Jack White, Love is blindness (cover U2, ovvero: come rendere una canzone qualsiasi una canzone vera. E non mi piace neanche Jack White.)
Lube, Позови меня тихо по имени
Lube, Конь
Benedetto Marcello, Adagio del concerto per oboe (e, credetemi, non c’è finale migliore per la storia di questo mese)