domenica 12 dicembre 2010

Giorni di provincia dai vetri di un regionale

Che cosa significa distendersi su un letto senza capacità, svuotato. In un appartamento di altri, che sembra casa da villeggiatura.
Con un odore di
mare.
Non riesco neanche ad alzarmi.
Il giorno prima avevo visto Chūnfēng chénzuì de yèwăn (春风沉醉的夜晚), che non saprei neanche tradurre. Senza capirlo. Rimanendo scosso. Abbracciando. Aspettando un notturno.
In uno stato di impermeabilità.
Il giorno dopo sarei rimasto ad ascoltare. Solo suoni per l’occasione, con voce che non è parola. E avrei sentito il peso della leggerezza, un soffio da avvertire, il significato dell’anima.
E avrei speso i soldi che non ho.
Ma
che importa, era necessario per rendere giustizia.
La dimensione delle cose. La giusta statura. E’ questo che non riesco ad afferrare, e mi squilibra. La tensione mi si aggroviglia intorno e mi divora. Adrenalina. Semplice parlare che diviene guerra e insulto il dolore vero. Soffocamento. Responsabilità fraintese. Sollevamento da terra. Deformazione della realtà. Perdita della prospettiva. Cecità. Ansia. Era solo una presentazione di un libro che ho scritto io, neanche da solo. Ora è tutto chiaro, sdraiato su un letto di un’altra. Vuoto e leggero, nel bene nel male nella gioia e nel clamore nel lutto nel dolore nel freddo nel sole nel sonno nell’amore. Solo, nel nulla.
E pensieri da scrivere, il giorno dopo.
E ancora
la morte che ricompare nei pensieri. Sempre lei, con l’aspetto di libro: cosa significa avere un padre sul letto di morte. Com’è che la vita ti insegna lentamente a morire. Ti abitua pian piano, nei momenti di stasi, di vuoto. Privazione di legami, di azioni. Un assaggio di vecchiaia, cucchiaio dopo cucchiaio, si inizia così: una volta ogni tanto. E ancora: se tutto va bene ti butta un cadavere davanti a distanza costante. Messaggi a cui sei libero di non far caso, che puoi seppellire sotto pile di vita, basta iniziare sin da piccolo. Nonni, zone di guerra, compagni sfortunati, genitori. E allora puoi avvertire di non essere diverso.
Sento il mio respiro
nel ventre
tutt’altro che materno.


Ascolti del mese:

Electric president: Violent Blue
Le luci della centrale elettrica: Quando tornerai dall’estero
Anthony & the Johnsons: The Great White Ocean
Shannon Wright: Dim Rider

sabato 2 ottobre 2010

Cina, musica, folk. Sentirsi in Cina.

Non so il perché. Proprio per non essere riuscito a capirlo ho rimandato questo post di giorno in giorno. Attendere ancora, però, significherebbe perdere un pezzo di quello che sento; non potere rendere qualcosa che ha assunto i contorni sbiaditi dei ricordi in via di allontanamento, divenire storia da raccontare.
E allora eccomi a parlare di qualcosa senza sapere come. Questa è una storia che potrebbe iniziare con l’immagine di una radura come tante. Nel verde e tra due costoni, come fosse un nascondiglio dei piatti pascoli mongoli. C’è fango a terra, piove da giorni ed è apparso il primo freddo, ma oggi brilla il sole, senza esitazioni. Oppure potrebbe cominciare con un commento che mi è rimasto nella mente: appena arrivato in Cina, desideroso di capire e conoscerne la musica. Una mia amica ben più esperta, ottima ascoltatrice, mi disse che sì se ne parla tanto ma il neo-folk cinese non è poi tutta questa cosa, nulla di nuovo. Ed io a provarci, ascoltandolo, a farmelo piacere ma non mi lasciava nulla. Quattro anni fa.
Non so cosa sia cambiato, non c’è stata illuminazione, piuttosto un vissuto senza prestarci attenzione, un giorno dopo l’altro. Ed oggi sono prigioniero di quelle voci, degli strumenti, dei suoni tradizionali e di un’atmosfera. Perché come dice Xue Yugang, fare musica è tratteggiare un’atmosfera, condurci dentro l’ascoltatore e lasciarlo lì, in balia di una forza del tutto staccata dal mondo reale.
Neo-folk, mínyáo (民摇). Forse non è proprio così. Perché quando sento un cd di folk cinese è vero, magari sento un’atmosfera. Ma quando lo vedo dal vivo io sento la Cina scorrermi nelle vene, o almeno –la Cina è tante cose, belle e brutte- sento un’essenza che si manifesta, quello che dei cinesi e della Cina amo. Sento un modo di fare e vivere l’arte, anche se sì, è vero, cazzo in fondo suonano solo una chitarra e delle percussioni, spesso con musiche scarne, e cantano. Ma quel modo di cantare e di fare musica. Quei testi. Di più non so spiegare, solo suggerire.
Nel quadro c’è da immaginare un pullman di due ore, un verde che cresce allontanando frustrazioni metropolitane, un sentiero di alberi e ragni. Intorno. Al centro quella radura, lo scrigno dei pascoli. Zero sponsor, un palco piccolo. Gli organizzatori sono una band mongola che gira da un decennio, si dice che prima facessero metal o punk. Oggi sono la band più famosa di mínyáo negli States, a parimerito con quel fenomeno da baraccone di Sa Dingding e dei suoi fottuti canti alla Ricky Martin in sanscrito e tibetano. Poco pubblico, metà cinese metà non (ma ben selezionato).
Ci sono anche la donna che amo e le persone giuste per condividere.
Non so come nasce il mínyáo. Potrebbero esistere almeno un paio di versioni al riguardo. Potrebbe significare, come dice Zhou Yunpeng, un cantastorie sospeso tra arte (poesia) e popolo, quell’essere tra la gente e l’esserci come cantore. Quel mínjiān (民间) che troppo spesso oggi viene associato all’idea di società civile, per me un’idealizzazione un po’ intellettuale. Questa spiegazione credo sia vera, ma a me sembra un qualcosa che si è aggiunto solo in un certo tipo di mínyáo e solo in un secondo momento. Un’altra versione è quella di un mínyáo ancora non riconoscibile in una scena. Veniva cantata dai primi gruppi, rigorosamente provenienti dal sottosviluppato Nord-Ovest cinese, convogliati nella centripeta Bĕijīng che si apprestava a divenire metropoli. Parlavano di una terra lasciata alle spalle, di alienazione dell’artista in una Cina ufficiale che guardava altrove, di idealizzazioni del passato, dell’origine, di tradizioni e di un fiume. Il fiume.
Convogliarono in un locale, il The River. Fondato dai membri degli Yiě háizi (Wild children), fu il posto dove Xiao He e Wan Xiaoli registrarono i loro primi album. Poi Xiao Suo, il cantante degli Yiě háizi, morì e il The River fallì. Ma qualcosa era sorto e la scena aveva assunto una forma. Hanggai, Mamuer e gli IZ, Zhou Yunpeng, Suyang, Wang Juan, Zhang Muyang, Wu Junde ed i Lüxíngzhě, Song Yuzhe, Li Zhi, Měihăo Yàodiàn. Tutti diversi ma con simili vibrazioni in moto.
Ero lì, fra terra e odore di erba. Per una volta posso pensare che c’ero anch’io. Un pezzo di una storia anche se intorno non c’erano sponsor, televisioni, critici, esperti. Anche se di questo festival non se ne è accorto nessuno e nessuno se ne ricorderà se non i (troppo pochi) presenti. Lontani i cocktails ed i vestiti da serata, solo musica e lo spirito di chi fa quella musica, artisti veri riuniti solo per suonare. Era ormai sera quando Urcha, voce degli Hanggai, è salito sul palco per la seconda volta, prima che le luci si spegnessero sulle emozioni spese. Ubriaco, si è commosso ringraziando il pubblico, senza di cui ha detto loro non potrebbero esistere. Poi ha preso il microfono e iniziato a cantare, solo voce e di un canto che insieme usciva dalla terra, dalla gola, dal cielo e dalla luna. Prima fila, un vecchio (ce ne erano due in tutto) ha iniziato ad applaudire in modo forsennato e urlare la sua approvazione. Lì per lì ho pensato avesse bevuto pure lui, ma guarda se questo qui non si sta zitto. Ma An Xin mi ha detto poco dopo che quell’uomo, una vita alle spalle, una camicia d’altri tempi, stava piangendo per l’eccitazione ed era tutt’altro che ubriaco. Andando a dormire ho sentito che quella notte tutti i presenti avrebbero sognato, risognato e dormito di un sonno tranquillo.


Ascolti, a questo punto fin troppo scontati, del mese:

Lüxíngzhě, Lüxíngzhě (旅行者, I viaggiatori)
Zhou Yunpeng, Jiŭ Yuè (九月, Settembre)
Zhou Yunpeng (o Wang Juan, o Wu Junde, meravigliosa in tutte le versioni), Yŏng gé yījiāng shuĭ (永隔一江水, Un corso d’acqua per sempre diviso)
Song Yuzhe, Lièrén (猎人, Il cacciatore)
Zhang Weiwei e Guo Long, Yăn wàng zhe běifāng (眼望着北方, Guardare verso nord)
Zhang Quan, Sì jì gē (四季歌, Il canto delle quattro stagioni, canto tradizionale giapponese)
Hanggai, Hăilā hăilā (海拉海拉)
IZ, Êdil-jayeҚ
Wang Juan, Zuìhòu de tàngē (最后的探戈, L’ultimo tango)

domenica 19 settembre 2010

La divina (prostituta)...

...si muove con una mimica all’eccesso in un mondo in bianco e nero che è la Shanghai degli anni trenta.
Spazi angusti e le prime torri ad insegna luminosa. Il futuro nel sangue di una prostituta che con il proprio sacrificio porge al figlio un futuro già nella pelle della città: imitazione in via di costruzione, a metà tra la Shanghai di successo di Jia Zhangke o quella invisibile di Lou Ye. La semplicità del bene e del male è stata sotterrata dalla coscienza contemporanea. Quasi c’è bisogno di sognarla ancora. Mi viene da guardare i film muti come ascolto le favole, esemplicazioni ingenue di una vita che sembrava semplice perché si era trovata una strada che sembrava capire tutto. Era facile educare, allora, nella Nuova Cina piena di certezze d’importazione. Non come oggi, dove ormai non c’è più nulla di completamente bianco o nero, noi compresi.
Ruan Lingyu si uccise a 25 anni, all’apice del successo. Si imbottì di medicinali di ritorno da una festa organizzata dallo studio cinematografico dove operava. Colpita a morte da quella società in bianco e nero che sapeva recitare con la sua espressività. Una società dove tutto era giusto o sbagliato, dove le attrici potevano essere o puttane o modelli virtuosi in grado di sopportare il dolore della loro condizione. Ruan Lingyu aveva già rischiato una volta di essere additata, lasciando il marito. Quando la violenza e i tradimenti del suo nuovo compagno la resero nuovamente sofferente e le diffamazioni dell’ex marito ne minacciarono l’immagine pubblica non seppe scegliere l’anonimato ed una nuova vita. Uscì di scena da star qual’era, rifiutando i mali di una società ancora maschilista nel suo progressismo urbano di facciata. E fece il gioco di quella stessa società incarnando per l’ultima volta il mito del sacrificio, della donna oppressa e vittima in una Cina che sarebbe cambiata, prima o poi.
A Ruan Lingyu resta l’immortalità degli artisti: sono passati più di settant’anni dal suo suicidio, ma c’è ancora chi la ricorda e chi ne scopre la bellezza. Ascoltando quella musica sembra di vederla addormentare il figlio e gettarsi nella notte di Shanghai tra il vociare dei vicini e gli sguardi avidi degli uomini, mentre cerca solo di essere una madre tra le tante. Chissà com’era difendere la prostituzione contro l’ipocrisia sociale nella Cina degli anni venti e trenta, quando il sogno del futuro migliore era stato appena concepiti ed era possibile credere nel bene e nel progresso. Ci pensavamo qualche giorno fa, in una sala dove è stata proiettata la versione restaurata di una delle pellicole più importanti del cinema muto cinese, Shénnü, musicata da un gruppo di artisti belgi e cinesi.
Eccola, Ruan Lingyu, ancora oggi entra nei locali recitando la parte di una prostituta sublime. Ogni volta che percussioni, archi, tastiere e chitarre crescono come incedere. Una pulsazione che unisce artisti e spettatori di paesi e culture diverse; da ieri a oggi un ricordo che presta il volto all’universalismo dell’arte.

Titolo:
Shénnü (神女, 1934)

Musicisti:
Matthieu Ha (voce, fisarmonica)
Song Yuzhe (bānzhuólíng)
Xiao He (chitarra)
Yannick Dupont (percussioni, chitarra)
Eric Barbosa (tastiere)
Quentin Manfroy (flauto)

venerdì 17 settembre 2010

Vederti, rivederti e perderti una volta di più

Se tutto questo fosse veglia immota. Di un soldato che alle luci dell’alba sogna mondi diversi a pochi passi da un accampamento di carne e ossa. E il respiro della caccia tra alberi e tropici, un ansimare che si avvicina senza volto. Se fosse solo immaginazione di chi vuole fuggire dalla violenza di una guerra. Allora capirei. Sentirmi come una di quelle espressioni che potrebbero rovesciare addosso parole su parole, per questo sono seduto sul divano senza parlare.
L’ho chiamata folk plays perché aiuta a distendermi. Tunng, matt elliott, patrick watson, zhou yunpeng, lhasa, cat power, soap & skin, emily jane white, autumn shade, alela diane. Gli ascolti di un anno potrei dire. Possibilmente donne, un certo tipo di attitudine femminile all’arte. Chissà perché. È difficile capire, però nelle migliori storie i personaggi vivono di vita altra e staccata dallo scrittore. Poi le chitarre crescono nei minuti: le luci della centrale, xie tianxiao, electrelane e, apoteosi, 65days. E non è più possibile pensare a nulla.
Ero fuggito da un bacio e da possibili risvolti d’amore. Come un ribelle fallito mi rinchiusi in un altro aereo con il suo catering asettico che sa di ospedale. Mi sono mascherato con i panni del sogno appena sceso all’aeroporto del circo delle illusioni. A volte mi chiedo se il marchio Beijing non sia perfetto per chi vuole passioni, in fondo non c’è differenza tra il credere in qualcosa e che ti facciano credere in qualcosa di prefabbricato. Almeno non per chi crede.
E poi, e poi e poi... cantava un vecchio pezzo che finiva mormorando sconfitto “...l’importante è... è finire”. Avevo aspettato questo momento da un sacco di tempo, ne avevo lambito i contorni, immaginato le atmosfere e le colonne sonore. Lo avevo avvicinato ai migliori amori intrisi di pellicola che conoscessi. Un ricordo atteso per quattro anni. Gli anni passati si erano avvicinati ad essere ricordo soffuso e confuso, una certezza coperta di dimenticanze compensate di particolari leggendari. Non mi interessa la realtà, preferisco il sogno e l’arte, adoro big fish.
Dove eri finita? La tua casa nascosta dalle luci. Non riuscivo neanche più a trovarla. Secondi di vita strappati al fumo, sguardi rubati a persone felici. Albe e notti, attese e assopimenti. Altro, perché amo vivere. In fondo era solo una delle parti di eterno infinito della mia vita, sapevo staccarmici, sognare altro e viverci senza. Ma è di un bagliore che non so dire, uno di quegli stati d’animo che non sanno esprimersi a parole.
“Ho fatto un sogno, la scorsa notte: un pesce sulla terra avido di respiro”.
Poi è scesa a terra e tutto andò diversamente da come mi aspettavo. Sempre il suo respiro caldo e la sua pelle splendida. Sempre quel parlare a due che è racconto e poesia, quell’intorno che non c’entra niente, quel senso di pace familiare. Sempre abbondanza di pensieri e strade vuote alla ricerca di casa, anelli da percorrere in solitaria a piedi e in piena notte chiedendomi perché. Sempre quella sensazione di vita, anelito pulsante. “Una volta pensavo di essere la migliore”. Potenzialmente sarei un gran rivoluzionario, un perfetto antagonista. Un anti-eroe di culto da mantenere all’ombra per fedeltà alla linea. Potenzialmente. Vorrei iniziare di nuovo a fumare. Tutto è andato diversamente da come mi aspettavo: due persone diverse in un posto diverso, vale a dire: una storia nuova.
Perché creare arte è così doloroso? Perché tessere sofferenze da aggiungere alle cicche sparse a terra? Perché continuare a violentare? E perché è così sublime? Cosa facciamo dei nostri sogni quando veniamo sognati e quando sogniamo. Non siamo poi così dissimili da Dio nel caso in cui esista.
L’alba è alle porte, l’ansimare è vicino. Solo il tempo di rendersene conto e voltarsi, nulla più. Un sibilo, una bomba e fine. Chi immaginava quella guerra si è portato via le storie di un soldato lontano da casa, me incluso. Chissà come sono morto nel suo immaginare. E come è svanita facilmente la mia attesa dopo tanta disillusione ed emozione distaccata. Sarebbe potuto essere questo, o quello. Gli incastri sarebbero potuti essere altri, sarei potuto essere immaginato in modo diverso e avrei potuto immaginare storie di vite diverse. Ma non c’è più tempo, ad ogni modo; non mi resta che essere il personaggio di altre storie pensate da altri scrittori. Da personaggio divenire autore e seminare lacrime da leggere. Eppure, è stato ugualmente un grande amore.
Fine.

mercoledì 8 settembre 2010

Sulla scrittura

Mi accade di scrivere ultimamente, non per me ma per altri. Mi capita di parlare, di non riscontrare ideali artistici dati per scontati, sempre con maggiore coscienza, nel tempo. Mi capita di infastidirmi nel vedermi cambiare una forma, suggerire una parola al posto di un’altra, e di non capire perché dovrebbe essere meglio così che in un altro modo, come l’avevo pensata io. Per me era tutto ovvio, prima, meno per altre persone: quando si scrive la prima cosa non è il significato, non la chiarezza, non la linearità. E a sentire che molta gente la pensa diversamente mi lascia in un angolo. Non ho mai pensato di scrivere in modo irrazionale o ermetico. Contorto, quello sì perché ho preso un’abitudine pesante nel tempo, di pensare le cose da ogni angolazione e infilare ogni ombra e ogni riflesso ad ogni costo. Dire (scrivere) ogni passaggio di ogni pensiero. Quello sì, non mi è mai piaciuto in quello che scrivo. Ma criticare perché una cosa è poco chiara...
Come se si potesse comunicare solo un’idea e non un’estetica, un suono, un’immagine, un moto d’animo in ciò che uno scrive. Tra l’altro: la comunicazione per capirsi è sempre stato un ideale estenuante, avvicinabile come ogni ideale, per carità, ma mai raggiungibile (come ogni ideale). Si può intuire e in una certa misura anche capire. Ma quante volte quello che dico arriva a te come l’ho detto io. Quante volte quello che sostieni con tutte le forze lo ritrovi nelle mie orecchie. Per non parlare di quando si hanno opinioni diverse e si inizia a difendere se stessi prima di capire l’altro. Che poi, quando ti capita di dire o sentirti dire “ho capito” non ci crede nessuno e si è solo stanchi di discutere/lottare per convincere/difendere le proprie torri di certezze. L’arte, il vecchio interrogativo sempre buono per smarrirsi e ritrovarsi: ascoltatori, osservatori, critici avranno recepito proprio quello che l’artista voleva dire? No, ma il bello è proprio lì: trasmettere attraverso un’emozione o un’idea propria per far sì che l’altro ci ritrovi proprio quell’emozione di cui aveva bisogno per riconoscersi. È questa l’arte dell’arte, creare e ritrovarsi nelle creazioni altrui per rassicurare il proprio essere.
(Sto scrivendo per estremi e questo non piace neanche a me).
Il problema è che quando uno non capisce gli stati d’animo di un cantante o di un poeta e li legge con la propria lingua, pace. Quando ci si scambia idee bisogna capirsi però, altrimenti o si spreca tempo o si effettua un percorso di crescita troppo personale, in cui l’altro non viene recepito o respinto ma è solo un referente su cui costruire, smontare e accettare potenziali approvazioni e opposizioni al proprio discorso. Un alter-ego immaginato più che vissuto. Poi ci si può pure illudere di capire, magari si può anche avere la sensazione o intuire (livelli ben più alti della sapienza) l’altro. Si può persino sentire di capirlo. Ma non lo si capirà mai fino in fondo, altrimenti smetteremmo di parlare, scrivere, litigare, discutere, sorprenderci, fare la guerra, urlare, stupirsi, dare per scontato, fare la pace. Tutto sarebbe superfluo.
E allora? Ho pensato a lungo di nutrire una sfiducia implacabile verso la comunicazione, parlata o scritta. Ma non era così. E l’ho visto quando ho iniziato a infastidirmi perché le persone per cui scrivo hanno cercato di cambiarmi proprio quella parola che mi piaceva tanto. C’è sempre da imparare da chi fa un mestiere da più tempo di te, che sia un giornalista, uno scrittore o una professoressa. C’è sempre da migliorarsi. Non ho mai avuto un ego troppo pieno e neppure troppo vuoto: a volte lascio andare troppo facilmente, altre mi blocco su dettagli, altre ancora difendo un mio modo di essere. Così, a volte posso migliorare nello scrivere, altre avrei potuto intestardirmi, altre difendo il mio modo di essere nella scrittura.
Scrivere implica una trasmissione, anche se da rimodellare almeno in parte. Se non amo trasmettere idee è perché non mi piace che le idee siano fraintese e mi uccide pensare che viviamo in un mondo di riscrittura di significati secondo l’essere di ognuno. Però amo scrivere. Perché oltre al significato c’è qualcosa di più alto nella scrittura: il suono di due parole accostate, la bellezza estetica di una frase, come se si potesse sfiorarne la forma, il contorno e la consistenza. L’immagine. Perché se non so spiegarmi posso sempre dipingere per dare un’impressione. Per dare impressioni non bisogna sviscerare riflessioni e significati, basta rendere una sensazione con delle parole. Un pensiero non deve essere inattaccabile ma intuibile nello spirito per essere una base su cui aiutare l’altro ad esprimere se stesso. E per far sì che tu possa cogliere un’impressione di quell’espressione per aggiungere una nuova immagine in te stesso, da trasmettere infinitamente e mutevolmente.
I significati non sono inutili. Ogni volta che si sceglie una parola lo si fa perché se ne coglie un aspetto. Ignorando i significati si priva la parola di ogni valore. Ma a dovere essere negata è la comprensione completa del significato di una parola, non una delle sue ombre o delle sue luci, dei suoi riflessi. Cogliere una luce, renderla attraverso una pittura per dare la possibilità ad uno spettatore di trarne un aspetto, da imprimere in una nuova immagine e rendere in un testo lirico da cui assorbire lo spirito di un passaggio... Non amo lo slancio del realismo, la volonta di narrare i fatti. La scrittura è impressione, descrizione soggettiva e, perché no?, creazione. Arte. Anche quando si scrive un articolo per parlare della Cina. Anche quando si scrive una tesi di dottorato. (Con i dovuti compromessi perché non si vive da soli ma in un’entità pluralista, la società, dove esistono delle norme). Per non parlare di quando si scrive una poesia, una canzone, si gira un film, si scatta una fotografia, si scrive un libro.
Anni fa una persona (poco dopo avermi soffiato la mia ex ragazza per un po’), leggendo una poesia che avevo scritto, mi disse che ero un pittore e non un poeta. Mi ha sempre fatto piacere ripensare a quelle parole, perché mi sono sentito compreso nella mia attitudine di non volere comprendere né far comprendere. Una dimensione che non fa troppo caso alla coerenza e all’inattaccabilità di una posizione.
Contro ogni sistematicismo, sempre. Scrittura, arte, rivoluzione e sogno.

martedì 20 luglio 2010

颐和园 (The Summer Palace)

Alba e tramonto di una pagina di storia. Gente che ci ha versato il sangue e quella spinta che ti senti crescere dentro senza pensare a quello che potrebbe accadere. Incazzato e sognante. Quasi una sublimazione della condizione umana. Perché protesta è ideale e condivisione.
Il giorno dopo ero nel letto a pensare e ripensare alla morte delle ideologie. Senza averle mai amate troppo. Ma le ideologie mettevano sogni e carne dentro la politica. Alla faccia del parlamentarismo e dei dibattiti esanimi, civili, disumanizzati. Se solo fossimo veramente liberi e non controllati da politica e mercato. A volte so con certezza che sto semplicemente aspettando una causa per morire felice in un mondo che non mi appartiene. E mentre vedevo tutto ciò, steso sul letto, al mio fianco una suoneria di cellulare ne seguiva un’altra. Già, la scelta della suoneria, uno dei momenti cruciali dopo l’acquisto di un cellulare. Avrei voluto urlare, riscoprirmi in una piazza, credere qualcosa con qualcun’altro, lottare per questo. Ho fatto finta di niente e mi sono addormentato.

“La quarta cosa è che
oggi ho passato tutto il giorno alla piscina e una cosa spaventosa è accaduta di nuovo: non potevo stare seduta né rimanere calma. Volevo continuare a scrivere, ma non ci riuscivo. Allora ho fatto quello che faccio normalmente: ho chiuso gli occhi stretti, ero in un sudore freddo. Volevo sdraiarmi, solo sdraiarmi. Mi avrebbe fatto bene. Poi sono entrata nella piscina e mi sono seduta al limite tra la parte profonda e quella bassa. Il mio respiro è cresciuto debolmente, non ero sicura che sarei riemersa. Ho perso conoscenza.
La quinta cosa è che gli studenti di Beida andarono a Piazza Tian’an Men.”

Amore e rivoluzione. Individuo e storia collettiva, di sfondo. Un film, un palazzo d’estate nelle sale universitarie e quella luce che ti lasci alle spalle entrando nel mondo degli sfruttati e degli sfruttatori per viverci dentro. Dolore, tormento, gioia naive. Inespressi, a tratti. Poi basta la miccia per illuminare tutto a prescindere. Una scena magnifica, che ti fa sentire il sangue nelle vene: note in crescendo, parole semplici, ad uno ad uno salgono su un furgone, università-piazza solo andata. Ridono, non si sa bene perché ma in fondo anche sì. Tian’an men come lo specchio di un sogno che è la giovinezza. L’amore di due persone per spiegare cos’è stato Tian’an men. Riconoscere l’amore nella rivoluzione e la rivoluzione nell’amore. Con l’entusiasmo che si spegne sulla via del ritorno, che è ritorno alla realtà, alla vita. Tormento e dolore nella nuova incomunicabilità della luce che si spegne su uno degli anelli pechinesi. Gioia naive alle spalle.
E poi quello scorrere di tempo e di persone, fino a ieri. Sembra una vita fa, Tian’an men, per quanto è cambiata la Cina. A volte mi dimentico di essere nello stesso paese dove c’è stata Tian’an men. Sembra impossibile che un ventenne di allora oggi abbia solo quarant’anni. Dove hanno messa la memoria? Dove sono finiti tutti i sogni? La frustrazione e la pesantezza che si trascinano per una vita.
Fino a nuovo incontro, solo per capire che ti hanno portato via tutto e tu hai lasciato che ti portassero via tutto. Senza neanche rendertene conto. Ammettere che la vita può essere anche questo. Nello sguardo di uno specchietto retrovisore di un Suv.
Ma verranno altri sogni, verranno altri amori. E altre rivoluzioni. E altri risvegli. La vita, la morte.

Regia: Lou Ye
Titolo: Yiheyuan (The Summer Palace).
Ascolto del mese: Hao Lei, Yangqi (Ossigeno)

venerdì 11 giugno 2010

Guerra, pace, Tolstoj e umanità

La storia come movimento. Sono rimasto ad ascoltarlo, riga dopo riga. Contro la genialità degli eroi, contro il fatalismo divino. La storia siamo noi, diceva De Gregori pensando a guerre e resistenze ormai lontane. La storia restituita alle masse in quel secolo indimenticabile che fu l’Ottocento. Quando in molti devono aver sentito di fare la storia. E quando si pensa che a decidere siano singoli individui, capaci di segnare il cammino dell’umanità portandola alla distruzione o alla gloria, ecco la risposta del dettaglio: infiniti movimenti frammentati, casuali, sospesi tra libero arbitrio e necessità, incondizionati e prigionieri allo stesso tempo. Un insieme che non è razionalizzabile e neppure concepibile di fianco al movimento che ne scaturisce, alla direzione intrapresa da un popolo o dall’umanità. Un percorso fatto di condizioni e contesti, in cui l’immagine unitaria che ci appare o che ci viene descritta come iniziativa politica, militare, sociale... altro non è che l’insieme di una moltitudine, spesso eterogenea, contraddittoria e piena di collisioni, dove gli “eroi” danno indicazioni non seguite universalmente dalle “masse”, dove gli uni e gli altri sono ugualmente imprescindibili ed il destino del mondo non è dato né dalla decisione dei capi né dal consenso delle masse, ma dal loro confronto. Da ciò che ne scaturisce, il movimento. E tutto questo è spezzato dalla vita e dalla morte quotidiana, la vita di tutti i giorni di figure immaginarie che si possono toccare, sentire, capire o disprezzare perché di mezzo c’è l’arte.

Guerra e pace non è cronaca storica, dice Tolstoj, non è romanzo, non è poema. “Guerra e pace è ciò che l’autore ha voluto e potuto esprimere in quella forma in cui è venuto a prendere espressione”. Avere qualcosa da dire e scriverlo fregandosene dei dettagli che ruotano intorno al contenuto. Qualcosa che può far riflettere anche oggi, in un’epoca divisa, ma unita a pensare che a fare l’Italia sia solo un uomo di nome Berlusconi, nel bene o nel male. Un uomo solo, uno come tanti che ne esistono al mondo. Non lo furono Alessandro, Napoleone, Hitler, Gengis Khan, Qianlong. Questo dovrebbe bastare.

Tutto si può negare. Che ci siano di mezzo le scelte, che tutto abbia una spiegazione che prescinda da noi. Ma è nelle mancate affermazioni di personalità o impersonalità assolute che l’io e l’altro emergono più vivi che mai e reclamano un ruolo; come condizioni di un risultato in cui l’umanità, ciò che “è” diviene a poco a poco riconoscibile. Un moto di cui non si intravedono fine ed inizio, da cantare e incantare come piccole storie da raccontare e grandi romanzi da scrivere.

“... E poi la gente, perché è la gente che fa la storia,
quando si tratta di scegliere e di andare
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto un milione di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare
Ed è per questo che la storia da’ i brividi,
perché nessuno la può cambiare
...”


Ascolti del mese:

Marlene Kuntz, Siberia (cover Diaframma)
Tunng, With Wiskey
Micah Paul Hinson, Take off that dress for me
Asaf Avidan and the Mojos, Her Lies
Lhasa de Sela, A fish on land
Soap & Skin, Mr. Gaunt PT 1000
John Grant, Queen of Denmark
Electric President, Mr. Gone
Le luci della centrale elettrica, Produzioni seriali di cieli stellati

venerdì 7 maggio 2010

Ritorni

Sulle sigarette accese e spente
sulla pena che strazio masticando ricordi
sul passaggio da oggi a ieri,
ritorno puntuale a ritroso
E non posso bruciare, e mi vedo ansimare
serio, in volo
e poi terra
cinese, in transito. Tutto scorre “ancora di più” quando i porti lambiti e abbandonati
con suono di onde inseguite
sono eco di urlo ineffabile
“esiziale, lento, disumano”
in cerca di un nuovo nome e di due occhi in più.
Dicono che la gente deve fissarsi negli occhi
perché non sanno della vita che c’è dentro
Una volta ci nuotavo, nei ricordi,
ora sono solo una stazione in più
da consumare sotto le suole in attesa di un’altra sigaretta.
Senza voltarsi
quanti abbracci ho alle spalle
che non so più pregare
E se rincorro quelle maree pacate
riesco solo ad essere
ramo alla deriva
fra le mani, un po’ di sabbia in più.

martedì 20 aprile 2010

In bilico, sul vuoto di un'aria che sembra acqua

Se camminando all’indietro riuscissi a contare i passi che mi separano dal suono di una chitarra, saprei arrivare lì, ad un respiro dal muro e con le mie spalle intatte. Al finire delle parole. Tra Tibet, Mongolia, Taiwan e dissidenza; tutte sedute al sole di un cielo che si voleva piovoso, o su una terrazza sospesa da terra. Le montagne in lontananza ed una cresta solitaria che ne indurisce la cima.
Abbiamo passato una piscina, salito alcuni gradini, passeggiato in un cortile di ingresso. Le forme di una vita, inseguite per una vita senza ambizione di vederle infine definite. Ma solo assecondate nel tempo per dare loro espressione, ricordando che nulla è statico e tutto è ciclico. Tutto è costruzione ma anche disfacimento, e per questo la fine non è mai motore di un movimento. Tutto questo è una casa in costruzione, o almeno il sogno di quella casa fatto da un ascoltatore intento a recepire messaggi non descritti e pronuniciati in una lingua straniera.
Tra una moltitudine di persone, isolato. Artisti e derivati, con i loro pro ed i loro contro. Stanze a tema, arredate ad arte tibetana. Che non è realtà tibetana e neanche cinese, che si mescola all’avanguardia artistica contemporanea ritornando alla new age. Assieme a pupazzi giganti, mao e artisti armonizzati. Repressi. Se in Cina repressione significa ancora minoranza, allora tutto ciò è ancora più distante dalla realtà. E lo si vede da queste pareti, dai tetti, dai vestiti e dagli argomenti. Se non fosse tutto così esteticamente bello. Come rendere il vizio aristocratico in armonia con la natura in un paese socialista convertito al capitalismo. Sempre che l’aristocrazia sia una condizione e non più una classe.
Mi muovo leggero e privo di pensiero in tutto questo, d’altronde vivo tra spazzi minimi, ultimamente. Margini di pensiero ristretti. Non so quello che sto facendo, ma lo faccio in tempo reale. Contro la pianificazione ed il controllo, in antitesi a me stesso e sento che non basta. Per questo ho accettato. Per questo sono di fronte a questa casa, che forse è stato solo un sogno. Finalmente compreso in un arco di tempo che dura una giornata. Di nuovo con il vento in faccia e non nella claustrofobia della vita sociale, dove spostamenti, relazioni e contatti sono pareti sempre più ravvicinate.
E vedo un uomo camminare all’indietro, chitarra in mano e voce persa nelle valli. Artista contro ciò che egli stesso percepisce, se stesso in un modo che solo gli artisti sanno essere; senza paura di esserlo perché non ne hanno coscienza, semplicemente sono. Uno dopo l’altro, una proposizione di destini incrociati con poche connessioni interne e me in ascolto, fin dove l’orecchio cinese può arrivare. E non è che vada molto in là. Sigarette da momenti morti, attese. La salita è un protrarre di incoscienza per ciò che mi aspetta.
Ed ecco la vetta dal basso: un muro a gradoni alti con pochi appigli per le mie vertigini. La muraglia non è più solo un luogo di memoria, il posto che finora ha saputo darmi più di ogni altro in Cina l’odore della storia. Ora la muraglia è una sfida umana astratta all’infinito, dove è impossibile immaginarsi xià e xiōngnú allontanarsi e riavvicinarsi ad un confine immaginario. Un’ambizione tutta umana, è quello che ne resta. Niente trenini e funivie qui, ma solo un cartello arruginito dove è scritto che l’accesso non è autorizzato. Ci credo: la salita è uno spiovente sotto forma di parete verticale con pochi appoggi, sassi che rotolano e muscoli non allenati che tremano nervosamente. Però ci siamo arrivati lassù, in sei su non so quanti: io, An Xin, un taiwanese, un mongolo e due ragazzini, di cui uno con un’aria adulta ed un modo di fare che sa delineare un immaginario. Nell’andatura, nelle frasi, nello stare ritto in bilico sul vuoto. Uomo piccolo, ma non misero, in spazi immensi. Uomo parte infinitesima del tutto. È un ragazzo che finora mi ha saputo dimostrare più di altri lama che il mito della spiritualità tibetana non è solo rappresentazione (e poco importa che non sia neanche un tibetano).
Dalla muraglia niente è uguale ad altre prospettive, inutile provare a vedere con gli occhi delle società metropolitane. Dalla muraglia si riesce ancora a vedere con gli occhi di un impero che era civilizzazione e non società moderna; di un luogo che era un modo di essere nello spazio e nel tempo e non una semplice unità politica fondata su vncoli sociali, integrazioni economiche e culturali. Immaginari che oggi posso solo percepire e quasi nemmeno descrivere. Sempre che non si voglia raccontare una storia o un sogno di tanti anni fa, ormai cancellato.
Mi immaginerei che tutto finisse lì, ma tra le foto c’è ancora una macchina, colore smorto, tutt’altro che bella. Ho fatto in tempo a buttare la frase lì: “Mi sembra strano che abbia detto di non conoscere Hu Jia”... Si è acceso un confronto che si è protratto dal sesto al secondo anello. Trafficato. Non ho capito tutto quello che avrei voluto capire. Sarebbe stato un articolo perfetto. Un articolo cinematografico, sulla linea di Kiarostami (Dieci) ma con più contenuti. È stato il mio primo contatto vero con quello che in lidi americani chiamerebbero un dissidente, uno per cui si parlerebbe dello sviluppo di una società civile in Cina. Un uomo che sarebbe posto a monte di teorie socio-politiche tutte astratte e staccate da lui stesso, se solo finisse in prigione. A me è parso solo un uomo con la sua vita, tutto quello che ruoterebbe intorno a lui sarebbero solo chiacchiere e discussioni, forse come quelle che facciamo noi, osservaori della realtà contemporanea. Solo un uomo con la sua vita. Sarebbe stata un’ottima intervista e forse anche qualcosa di più, perché in quella macchina oltre a lui c’erano un artista e una ragazza di cultura cinesi, un giovane taiwanese e un occidentale che avrebbe voluto avere un cinese migliore di quello che ha. Uno scambio vero tra il sesto ed il secondo anello, tra traffico, clacson e semafori.

sabato 20 marzo 2010

Ubriaco canta amore alla luna (che non c’è)

O almeno c’era. Quando sono uscito, un filo sottile come per sorridermi in una giornata senza sorrisi, dopo che ieri, prima di cedere al sonno, mi sono chiesto senza risposta cosa sia questo essere tra società individuo.
Cosa vuol dire camminare nella nebbia di Pechino alle quattro e mezza di notte mentre gli altri sono in taxi sulla via di casa. Nebbia finta, inquinata. A sanlitun. Dopo mesi (un anno?). Sanlitun è per Pechino una via di locali, uno dopo l’altro, in fila, ognuno uguale a quello che segue. Musica “da ballare”, alcool, ragazze cinesi in mini per tutte le quattro stagioni, marciapiedi pieni, e occidentali turisti-diplomatici-inquilini/lavoratori di giorno e febbre del sabato sera la notte. Pechino trendy. Per una vita, perché la jiuba jie (“la via dei pub”, che in cinese si chiamano i “bar dell’acool”, quindi la “via dei bar dell’alcool”) ha un continuo ricambio di turisti e di gente che vive a Pechino al massimo per un anno e poi se ne va. Magari anche qualche affezionato, ma non troppi, almeno mi piace pensarla così.
È iniziato tutto da un concerto, i Secret Machine a Pechino, nome nuovo dell’indie-rock americano. Dal my space sembravano interessanti, dal vivo invece spaccano, soprattutto il batterista che picchia anche per quell’altro gruppo che ha suonato venerdì scorso e si è presentato, come qualcuno a fatto notare, senza batterista. E la differenza si è sentita tutta. Gran bel concerto. Con facce nuove, semi-nuove e amiche, un buon mix. A seguire parole, le nostre, a segnare un altro bel ricordo per farmi scordare il problema dell’incomunicabilità linguistica. Forse perché poco prima, la musica aveva compiuto la sua solita magia, rendendoci consapevoli di aver provato tutti qualcosa in quella sala. Poi non so come, non so dove, ma si è deciso di accompagnare il gruppo alla via dei “bar dell’alcool”, in un locale modaiolo dal prezzo, almeno per me, esagerato. Nemmeno un secondo dopo aver visto il costo del biglietto ero già sulle scale d’uscita. Subito dopo mi vedo sfilare sotto gli occhi i ragazzi del gruppo, anche loro in fuga. Poi le due facce nuove e semi-nuove, con cui mi incammino verso un fish & nations palesemente falso, un buco grande quanto uno sgabuzzino dove fanno patate e pesce fritto nello stesso olio, dentro la stessa friggitrice, dentro una cucina improbabile. Stona nell’insieme dei pub, ma neanche troppo, col suo tocco spazzatura-americano che attira gli yankees e quella compresenza di vecchio postaccio anti-igienico e asettici mega-center dal bianco smagliante con luce accese giorno-notte che è Pechino. Anche i ragazzi della band si sono infilati lì. Guarda caso. Neanche dieci minuti e la comitiva si è ricompattata al completo. Seduto ad un tavolino un inglese dalla parrucca rossa e un look improbabile a cui chiedo se lavora in ambasciata e lui mi risponde di no. Ma conosce Gordon Brown e gli dico che lo conosco anch’io, di averlo incontrato la settimana scorsa proprio al Fish & Nations. Poi alcuni cinesi, e alcuni stranieri, tutti in uno spazio 3x3 a consumare birra, patatine e pesce. Col batterista dei Secret Machines che stacca il lettore cd dei propietari e dice di voler fare il DJ. Attacca il suo mp3 ai cavi, sfilano i Clash, David Bowie (suo amico) e altri classici a me sconosciuti in uno scenario surreale.
Poi c’è l’uscita: di nuovo sulla strada, quel vento che annuncia la fine di qualcosa, il ritorno alle case. Ma la Pechino da bere è anche questo. Sulla strada si sovrappone gente ubriaca, cazzi in cerca di figa cinese e figa in cerca di cazzi occidentali. E vecchietti vestiti di abiti lisi con bambini che chiedono l’elemosina. Sono apposta lì perché è lì che c’è gente che tira fuori banconote senza pensarci troppo tra drink e drink. C’è chi dice che siano finti poveri, almeno in parte. Un bambino ci ha seguito per un po’, ci ha aspettato fuori da un negozio dove ci siamo infilati e da dove siamo usciti con almeno un dvd a testa. E la percezione di quel bambino è stata imbarazzata, ma comune. Eccoci qui: alternativi perché amanti di buona musica e perché parliamo di cinema e letteratura scambiandoci sogni. Non mi interessa sapere se queste persone siano poveri veri o finti. Alle quattro di notte loro sono per strada a chiedere e noi alla stessa ora ridiamo e scherziamo, compriamo e beviamo. Si sta comodi nella società di consumi da alternativi consumisti, perché ce n’è da consumare. E sto comodo io nel mio letto ad aggiungere un nuovo post al mio blog, collegandomi ad internet per far conoscere idee ed esperienze. Il buonismo è ad un passo, dietro l’angolo. Ma io continuo a sentirmi a disagio nella disuguaglianza sociale, specialmente quando mi trovo ad esserne parte attiva e, purtroppo, quando mi trovo a passeggiarci di fianco.
Anche per questo, e non solo per la musica e per l’ambiente, non mi piace passeggiare per Sanlitun. Per questo alle quattro e mezza di notte cammino nella finta nebbia di Pechino mentre gli altri sono già in taxi sulla via di casa. E alla fine, l’ho preso anch’io il mio taxi per tornare a casa.

lunedì 8 marzo 2010

Sull'idea del vero

Vivere in Cina e, forse ancor più, leggere testi sul Tibet pre-post colonialismo mi ha spinto a interrogarmi su una definizione della validità del pensiero scientifico. Il pensiero scientifico è figlio della rivoluzione contro l’autorità, ha avuto i suoi martiri e un ideale per cui delle persone hanno sacrificato la propria vita. Quell’ideale è la conoscenza. Oggi leggevo di un intellettuale tibetano vissuto nella prima metà dello scorso secolo, il lama buddhista dGe-‘dun Chos-‘phel, un convinto sostenitore del modernismo occidentale e del sapere scientifico. In un suo articolo del 1938 si sforzava di spiegare ai tibetani che la terra era rotonda e non piatta come il Buddha avrebbe detto, verità di cui i tibetani erano rimasti convinti nei secoli. Nel mondo scientifico occidentale lo stesso anno la prima fissione nucleare veniva effettuata e, contemporaneamente, Biancaneve diveniva un cartone animato coi suoi sette nani. dGe-‘dun Chos-‘phel non amava gli occidentali incondizionatamente, ne notava le barbarie senza esitare, ma la scienza sì, quella era degna di ammirazione. Quella forma di sapere che in principio fu repressa ma che di fronte alla propria evidenza risultò infine inarrestabile ovunque, tranne, ahimé, che nel suo Tibet.
Oggi nel mondo esistono ancora dei lama tibetani che sostengono che la terra sia piatta, come disse il Buddha; e che il nostro mondo altro non è che un monte, a Sud del monte Meru, sede divina, in mezzo ad un oceano. Piatto. E se le fotografie via satellite mostrano un mondo sferico non è perché la terra ha effettivamente queste sembianze. Siamo noi a vedere male, con questi occhi gravati da karma negativo. Un’illusione frutto delle nostro bagaglio di esperienze passate, legate alla cattiva condotta nelle vite precedenti e non realtà. I sapienti quando guardano il mondo lo fanno con sguardo puro e non offuscato. Ai loro occhi non sfugge che in realtà la terra è piatta, sotto forma di oceano e con delle montagne che si ergono ai punti cardinali.
Di esempi sulla relatività del vero, per chi vive fuori da casa, ce ne sono milioni, quasi un’esperienza quotidiana quando ci si confronta con l’altro e non con un ambiente ristretto e familiare come quello che si erge intorno al binomio genitori-scuola. La mia convinzione di base è che il vero sorge dal consenso e non da una realtà interna all’oggetto considerato. Che la terra sia piatta o rotonda, essa non lo è di per sé, ma perché noi la vediamo così, chi attraverso gli occhi delle scritture del Buddha e chi con quelli della scienza. Il problema dell’indagine scientifica è che, dopo aver versato sangue per ottenere un riconoscimento ufficiale, ha poggiato sulla sua efficacia e sulla verosomiglianza per escludere tutto il resto. Chi, a parte pochi lama e la società della terra piatta del monopoli, oggi non pensa che la terra sia rotonda. Chi non crede che questo sia evidente, vero di per sé. Il problema della ricerca scientifica non è la validità, ma la sua universalizzazione, che storicamente ha reinterpretato –razionalizzando- modelli di osservazione del mondo culturalmente alternativi. Convinzioni che non possono essere giudicate infondate in quanto non comprovabili scientificamente; semplicemente perché fanno uso di categorie proprie. Assolutizzante, esclusiva.
Si dirà, ognuno è libero di vederla come vuole. Forse questo avviene a livello individuale ma, allargando il discorso a veri e propri sistemi culturali, chi non si è adattato è scomparso o è in via di estinzione. Sviluppo è anche questo, perché non esiste sviluppo autonomamente da un confronto e una negoziazione; ma in presenza di antitesi marcate la legge è quella del più forte e lo sviluppo è assimilazione al sistema più forte. Non che i sistemi più deboli esistessero prima dei tempi e non si fossero nutriti di identità ancor più locali. Incontro, confronto-scontro con l’altro, vittoria del più forte, assimilazione del più debole con mantenimento di alcuni tratti dell’identità originaria da entrambi i soggetti. Forse un tantino evoluzionista.
Eppure a me il relativismo sembra una gran cosa, forse solo perché da la possibilità di sognare mondi alternativi, perché lascia credere che tutto sia possibile a seconda del punto di osservazione. Il relativismo sa vestire di atteggiamento intellettuale un sogno socialmente immaturo. Il non volere crescere perché non si vuole capire che al mondo non c’è spazio per la diversità. Un atto di ribellione verso il punto di vista ufficiale, “in direzione ostinata e contraria”.

martedì 23 febbraio 2010

Dopo la vacca venne la tigre

Sei: sveglia. Sei e mezzo: stazione. Nove: apertura botteghini. Nove e dieci: biglietti finiti. Ero il nono in fila, niente da fare. Tutti a casa, anche le decine di persone dietro di me in tutti e cento gli sportelli della stazione sud di Pechino, neanche la più grande della città. Funziona così a capodanno: mettono in vendita i biglietti per le varie destinazioni solo cinque o dieci giorni (a seconda dei casi) prima della partenza. Peccato il giro di corruzione che fa sì che solo una persona su mille riesca a trovare il suo biglietto. Gli altri finiscono venduti a chi ha buone conoscenze, che a loro volta rivendono a prezzo più o meno maggiorato. In barba a chi senza uno yuan in tasca vede sfumare l’unica opportunità che in un anno ha di tornare a casa. L’anno scorso le persone bloccate furono così tante da portare il Primo Ministro cinese alla stazione per calmare la gente infuriata. Ne parlarono persino i telegiornali italiani... Più di due ore in fila all'alba a ibernare immobile. Ma almeno mi sono sentito un po’ più dentro alla Cina, in mezzo a loro e con i loro stessi problemi.
Dentro la Cina. Lo sogni durante le tue giornate, ti lamenti nel non riuscire a entrarci dentro ai cinesi e poi, quando succede, puoi anche non vedere l’ora di uscirne. Perché alla fine in un modo o nell’altro siamo riusciti a partire e tornare al villaggio natìo, a un passo dall’esercito di terracotta, in una città anonima fatta di shopping-mall e disordine. Come tanti posti in Cina, completamente spersonalizzati. Però una volta questa era la capitale di un impero. Quindici ore di treno (abbiamo trovato posto solo su un treno lento), ma almeno avevamo la cuccetta.
Non è la prima volta che mi ritrovo con i parenti dopo l'esperienza dell’anno scorso: tutto nuovo, sia per me che per loro. E ricordo che dopo dieci giorni non volevo andare via. Quest’anno invece ho pensato più volte al momento della ripartenza ed è innegabile che il mio umore appena sceso a Pechino era ottimo. Non sono stato male, tutti molto gentili con me e ho conosciuto meglio i miei futuri suoceri, nella loro quotidiana naturalezza e spontaneità. Ho bevuto e fumato con loro, mi sono sentito felice nel vederli felici. Tutti sorridenti in quella tavolata da decine di persone per il pranzo del primo dell’anno e io a guardali più dall’esterno e contento per vederli contenti, tutti insieme.
La lingua è foriera di incomprensioni già quando a parlarla sono due persone dello stesso paese. Figurati tra un italiano e un cinese. Poi se di fronte siedono un italiano e un qualunque cinese che parla il suo dialetto si arriva all’incomunicabilità senza margine di compromesso. È bello guardare, ma non ogni giorno ad ogni pranzo e cena. Ancor meno se quando torni a casa non trovi riscaldamento e acqua calda.
Ma lo straniero vive di momenti. Attimi di bellezza, nel respirare i gesti che gli altri non notano. Le sfumature a cui chi è familiare è oramai abituato. E così si innescano altre forme di conoscenza, tutt’altro che scientifiche ma intuitive; per nulla approfondite ma evidenti. Guardandomi indietro di qualche giorno mi ricordo osservatore esterno ma anche partecipe. Ero lì, semplicemente a bere, ad offrire e ricevere sigarette, tenere in braccio neonati, accompagnare i suoceri all’ospedale per un controllo, condividere pasti. Ma sempre lì ero e ben accetto. Ho intravisto con frustrazione discussioni interessanti a cui non ho saputo partecipare, ma non è ciò a cui ora posso aspirare. Ero lì per le silenti emozioni. Per inginocchiarmi di fronte alla tomba dei nonni della persona che amo, a rendergli omaggio dopo che i suoi zii e sua madre avevano fatto lo stesso. Per ritrovarmi in una casa di contadini come tanti nel mondo, due a caso a migliaia e migliaia di chilometri da casa mia, due contadini che mi offrivano da mangiare ad oltranza perché era il solo modo per accogliermi. Completamente fuori posto ma dentro un pezzo del mio futuro. A tratti un film comico anche se con vita reale sullo sfondo, un film che avrebbe fatto ridere in molti e che tuttora non riuscirei ad immaginare.

lunedì 22 febbraio 2010

Anelli

Ho continuato a fissarlo almeno per un’ora interrogandomi sul meglio, sul peggio e sul senso della scelta. Pressioni reiterate, implosioni sentimentali, voglia di porgere. Un portafogli troppo vuoto. La scelta è stata fatta: passeggio nei locali di uno di quei mega centri a tema, stavolta con oro e argento. Anelli come simboli di un legame, vincoli sociali, impegni per il futuro, pegni d’amore, segno di status, pro-forma. Ho scelto la prima definizione e mi sono messo alla ricerca di qualcosa che assomigliasse a due rami incrociati uniti da una roccia. Due sottili braccia e al centro una pietra preziosa, vera o falsa che sia. Non mi interessa. Non mi interessa neppure capire quelle spiegazioni sulla differenza tra l’oro bianco bajin e bojin, neppure ricordo bene quello che hanno provato a dirmi. Semplicità e linearità, come il nostro amore. Oro bianco, odio il giallo. È perfetto (se non fosse che costi più del budget fissato, che devo partire e i soldi mancano soprattutto in prospettiva futura, che non riuscirò a mettere da parte quello che avevo preventivato alla fine del mese e poi e poi...). Maledetto il risparmiatore borghesizzato o troppo socialmente inserito nel vivere in società che sono.
Rieccomi in camera. Dopo aver accennato a un pensiero da commedia sentimentale americana. Regalarlo alla prima passante (carina) che avrei intravisto in metropolitana. Infilarglielo in una borsa o in una tasca e scomparire anonimamente. Seduto sul sofà, il notebook di lato, una sigaretta già accesa. Sul tavolino una scatolina rossa aperta e quell’oro bianco che scintilla, così macchiato di società a deturpare la spontaneità di un sentimento. Sarà davvero così? I nostri amori possono esistere di per sé e a prescindere del vivere sociale? Penso di non avere neppure il coraggio di darglielo. Nel tardo pomeriggio ci intravediamo, a casa di un’amica per il mio taglio di capelli di buon auspicio per il nuovo anno. (Mal)celo, ma lei non sa, non può sapere e perciò non capisce. Faccio in tempo a fuggire dal taxi sulla strada del ritorno, in cerca di amici in un pub o per il gelo di Beijing, bere, scambiare pensieri e riflessioni, fumare, di nuovo bere. Come fosse un addio al celibato. Faccio in modo di tardare in modo di trovarla con la luce spenta, distesa sul letto e gli occhi chiusi.
Salgo le scale, mi lavo al buio con cautela, in camera la porta è chiusa. Buon segno. Entro lentamente con le scarpe in mano. Non era mai successo: alle tre è ancora lì ad aspettarmi sorridendo, occhi spalancati e luci accese. Decido che non posso aspettare e che quella convergenza di segnali in cui speravo è arrivata. Mi infilo nel letto, lascio intendere di avere qualcosa per lei, quanto basta per incuriosire. La magia è pronta: dalla mia mano appare una scatola rossa, con dentro due rami (le nostre braccia) appoggiati su una roccia (le nostre speranze). Si infila gli occhiali per capire se è vero, mi abbraccia e sento le sue lacrime. Viene da piangere anche a me per il nostro amore e per aver potuto incontrarla, forse escono una o due lacrime spezzate, forse. Finalmente la società è lontana, nel nostro letto, solo noi senza pressioni e seconde intenzioni.

sabato 6 febbraio 2010

Tra i Mono e Patrick Watson...

...c’è stato un mese d’Italia. L’Italia sembra ferma, uguale a sé stessa, coi suoi vantaggi e le voglie di (ri)fughe. Se penso all’Italia penso alla stasi. Per chi vive a lungo fuori casa come me significa ritrovare ciò che si è lasciato, con carichi di malinconie e retrogusti dolci-amari a cui si legano i miei istinti in modo abbastanza innata, direi. Stesse atmosfere, stessi discorsi, stessi politici di ieri. Mi riconsola dandomi l’idea di non essermi perso niente; d’altronde non ho abbastanza spirito nazionalista-patriottico per compiangermi sulle condizioni della mia terra. La mia terra è la mia casa, la mia famiglia, i miei amici e via via vari livelli di conoscenze e a darmi pensieri sono le loro condizioni, non quelle del povero bel paese.
Quella stessa stasi che mi rassicura mi spinge via dopo due o tre settimane. Nella vita mi sono ripromesso di andare avanti, non indietro e il tornare in Italia per tanti versi mi rimanda nel passato, vuoi per il vivere in famiglia, per il Natale o per l’assenza di lavoro, vuoi per quella stasi che tanto contrasta col fermento pechinese e cinese. Voglio dire, va bene per le vacanze ma non per viverci, non ora almeno.
La fine dei primi due mesi pechinesi 2009-2010 e l’inizio del nuovo soggiorno sono coincisi con due concerti diversissimi. Si dice che una ragazza in Giappone, dopo aver ascoltato la prima traccia dell’ultimo dei mono, abbia ucciso il suo ex. Forse la storia sensazionalistica non era proprio così, ma qualcuno è morto. I mono dal vivo sono come te li immagini, mono-espressivi, su un palco lanciano impassibilmente allo spettatore quell’alternanza di silenzi contemplativi e fragori emotivi coscienti di colpire nel segno ma senza godere per questo. Almeno non lo danno a vedere. Sembrano vuoti, sviscerati da quelle stesse emozioni che lasciano ricadere sul pubblico sotto forma di musica. Japanese style: puoi fissarli in faccia per ore pensando che non stiano provando alcunché ma dentro soffrono come cani. Suonano come in un cd. Solo che lo fanno dal vivo e tutto, ma proprio tutto, si moltiplica: dal rumore allo sconvolgimento alle reazioni del pubblico. Complice un po’ d’alcool c’è chi si è lasciato andare a qualcosa di più vicino a una scopata che a una paccata. Notando la scena penso che sì, effettivamente i mono si adattano a un rapporto sessuale, in una storia d’amore passionale e senza futuro, rassegnata, colma di sigarette e non di alcool, logora di se stessa e dipendente da se stessa. Uno dei più bei concerti degli ultimi anni. Tutta la scaletta dell’ultimo album dalla prima all’ultima traccia (avevo ragione, è un concept album anche se senza concetti a parole) ed io amo il loro ultimo album. Tanto mi basta.
Patrick Watson è arrivato in sordina. Appena arrivato a Pechino faceva un freddo che non so immaginare, due giorni prima i Pet’s conspiracy (due italiani e tre cinesi, band di punta e cool del momento dell’indie locale, una cantante che fa impazzire la platea e musica di qualità) e D.J. Krush avevano riempito le notti di Pechino all’inverosimile. E la gente la domenica non ha retto, se ne è stata a casa. Meglio così, perché io invece ho retto come pianificato le sette ore di fuso orario ed ero lì. Beh, anch’io finalmente posso dire di aver trovato il mio nuovo jeff buckley (tutti quelli che pensano che jeff buckley non è il cantante più sopravvalutato degli ultimi vent’anni hanno cercato la sua anima in qualcuno di vivo). Sì, la voce d’accordo. Ma non solo quello. La musica non c’entra niente, da intendersi, niente di rock e molto di indie come life-style, poche propensioni verso il passato e un suono contemporaneo. La somiglianza è nella concezione della musica, nella capacità innata di fare musica, sentirla mentre scorre nel sangue. Poi l’ironia è come mi immaginavo fosse quella di jeff, e anche lo show: palchi abbattuti, interazione col pubblico, improvvisazioni. Tante belle emozioni, una brutta: Lhasa de la sela se n’é andata. L’avevo scoperta da poco e ne ero già innamorato, 36 anni e un tumore esploso il primo dell’anno.

Ascolti del mese:
A Singer of Songs and Tiny Ruins- Road to nowhere
Liu 2- Lao caifeng
Corrado Nuccini- Famous blue raincoat (cover)
Matt Elliott- Something about ghost
Patrick Watson- where the wild things are
Haoyun- Zhe ge chengshi
Lhasa de sela- Rising

Ah già, fingevo di dimenticare: Brand Tibet sembra in uscita davvero, questa volta, 15 febbraio. Dieci anni fa non avrei mai pensato di finire su uno scaffale di libreria. Andate e comprate.