martedì 20 aprile 2010

In bilico, sul vuoto di un'aria che sembra acqua

Se camminando all’indietro riuscissi a contare i passi che mi separano dal suono di una chitarra, saprei arrivare lì, ad un respiro dal muro e con le mie spalle intatte. Al finire delle parole. Tra Tibet, Mongolia, Taiwan e dissidenza; tutte sedute al sole di un cielo che si voleva piovoso, o su una terrazza sospesa da terra. Le montagne in lontananza ed una cresta solitaria che ne indurisce la cima.
Abbiamo passato una piscina, salito alcuni gradini, passeggiato in un cortile di ingresso. Le forme di una vita, inseguite per una vita senza ambizione di vederle infine definite. Ma solo assecondate nel tempo per dare loro espressione, ricordando che nulla è statico e tutto è ciclico. Tutto è costruzione ma anche disfacimento, e per questo la fine non è mai motore di un movimento. Tutto questo è una casa in costruzione, o almeno il sogno di quella casa fatto da un ascoltatore intento a recepire messaggi non descritti e pronuniciati in una lingua straniera.
Tra una moltitudine di persone, isolato. Artisti e derivati, con i loro pro ed i loro contro. Stanze a tema, arredate ad arte tibetana. Che non è realtà tibetana e neanche cinese, che si mescola all’avanguardia artistica contemporanea ritornando alla new age. Assieme a pupazzi giganti, mao e artisti armonizzati. Repressi. Se in Cina repressione significa ancora minoranza, allora tutto ciò è ancora più distante dalla realtà. E lo si vede da queste pareti, dai tetti, dai vestiti e dagli argomenti. Se non fosse tutto così esteticamente bello. Come rendere il vizio aristocratico in armonia con la natura in un paese socialista convertito al capitalismo. Sempre che l’aristocrazia sia una condizione e non più una classe.
Mi muovo leggero e privo di pensiero in tutto questo, d’altronde vivo tra spazzi minimi, ultimamente. Margini di pensiero ristretti. Non so quello che sto facendo, ma lo faccio in tempo reale. Contro la pianificazione ed il controllo, in antitesi a me stesso e sento che non basta. Per questo ho accettato. Per questo sono di fronte a questa casa, che forse è stato solo un sogno. Finalmente compreso in un arco di tempo che dura una giornata. Di nuovo con il vento in faccia e non nella claustrofobia della vita sociale, dove spostamenti, relazioni e contatti sono pareti sempre più ravvicinate.
E vedo un uomo camminare all’indietro, chitarra in mano e voce persa nelle valli. Artista contro ciò che egli stesso percepisce, se stesso in un modo che solo gli artisti sanno essere; senza paura di esserlo perché non ne hanno coscienza, semplicemente sono. Uno dopo l’altro, una proposizione di destini incrociati con poche connessioni interne e me in ascolto, fin dove l’orecchio cinese può arrivare. E non è che vada molto in là. Sigarette da momenti morti, attese. La salita è un protrarre di incoscienza per ciò che mi aspetta.
Ed ecco la vetta dal basso: un muro a gradoni alti con pochi appigli per le mie vertigini. La muraglia non è più solo un luogo di memoria, il posto che finora ha saputo darmi più di ogni altro in Cina l’odore della storia. Ora la muraglia è una sfida umana astratta all’infinito, dove è impossibile immaginarsi xià e xiōngnú allontanarsi e riavvicinarsi ad un confine immaginario. Un’ambizione tutta umana, è quello che ne resta. Niente trenini e funivie qui, ma solo un cartello arruginito dove è scritto che l’accesso non è autorizzato. Ci credo: la salita è uno spiovente sotto forma di parete verticale con pochi appoggi, sassi che rotolano e muscoli non allenati che tremano nervosamente. Però ci siamo arrivati lassù, in sei su non so quanti: io, An Xin, un taiwanese, un mongolo e due ragazzini, di cui uno con un’aria adulta ed un modo di fare che sa delineare un immaginario. Nell’andatura, nelle frasi, nello stare ritto in bilico sul vuoto. Uomo piccolo, ma non misero, in spazi immensi. Uomo parte infinitesima del tutto. È un ragazzo che finora mi ha saputo dimostrare più di altri lama che il mito della spiritualità tibetana non è solo rappresentazione (e poco importa che non sia neanche un tibetano).
Dalla muraglia niente è uguale ad altre prospettive, inutile provare a vedere con gli occhi delle società metropolitane. Dalla muraglia si riesce ancora a vedere con gli occhi di un impero che era civilizzazione e non società moderna; di un luogo che era un modo di essere nello spazio e nel tempo e non una semplice unità politica fondata su vncoli sociali, integrazioni economiche e culturali. Immaginari che oggi posso solo percepire e quasi nemmeno descrivere. Sempre che non si voglia raccontare una storia o un sogno di tanti anni fa, ormai cancellato.
Mi immaginerei che tutto finisse lì, ma tra le foto c’è ancora una macchina, colore smorto, tutt’altro che bella. Ho fatto in tempo a buttare la frase lì: “Mi sembra strano che abbia detto di non conoscere Hu Jia”... Si è acceso un confronto che si è protratto dal sesto al secondo anello. Trafficato. Non ho capito tutto quello che avrei voluto capire. Sarebbe stato un articolo perfetto. Un articolo cinematografico, sulla linea di Kiarostami (Dieci) ma con più contenuti. È stato il mio primo contatto vero con quello che in lidi americani chiamerebbero un dissidente, uno per cui si parlerebbe dello sviluppo di una società civile in Cina. Un uomo che sarebbe posto a monte di teorie socio-politiche tutte astratte e staccate da lui stesso, se solo finisse in prigione. A me è parso solo un uomo con la sua vita, tutto quello che ruoterebbe intorno a lui sarebbero solo chiacchiere e discussioni, forse come quelle che facciamo noi, osservaori della realtà contemporanea. Solo un uomo con la sua vita. Sarebbe stata un’ottima intervista e forse anche qualcosa di più, perché in quella macchina oltre a lui c’erano un artista e una ragazza di cultura cinesi, un giovane taiwanese e un occidentale che avrebbe voluto avere un cinese migliore di quello che ha. Uno scambio vero tra il sesto ed il secondo anello, tra traffico, clacson e semafori.

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