domenica 19 settembre 2010

La divina (prostituta)...

...si muove con una mimica all’eccesso in un mondo in bianco e nero che è la Shanghai degli anni trenta.
Spazi angusti e le prime torri ad insegna luminosa. Il futuro nel sangue di una prostituta che con il proprio sacrificio porge al figlio un futuro già nella pelle della città: imitazione in via di costruzione, a metà tra la Shanghai di successo di Jia Zhangke o quella invisibile di Lou Ye. La semplicità del bene e del male è stata sotterrata dalla coscienza contemporanea. Quasi c’è bisogno di sognarla ancora. Mi viene da guardare i film muti come ascolto le favole, esemplicazioni ingenue di una vita che sembrava semplice perché si era trovata una strada che sembrava capire tutto. Era facile educare, allora, nella Nuova Cina piena di certezze d’importazione. Non come oggi, dove ormai non c’è più nulla di completamente bianco o nero, noi compresi.
Ruan Lingyu si uccise a 25 anni, all’apice del successo. Si imbottì di medicinali di ritorno da una festa organizzata dallo studio cinematografico dove operava. Colpita a morte da quella società in bianco e nero che sapeva recitare con la sua espressività. Una società dove tutto era giusto o sbagliato, dove le attrici potevano essere o puttane o modelli virtuosi in grado di sopportare il dolore della loro condizione. Ruan Lingyu aveva già rischiato una volta di essere additata, lasciando il marito. Quando la violenza e i tradimenti del suo nuovo compagno la resero nuovamente sofferente e le diffamazioni dell’ex marito ne minacciarono l’immagine pubblica non seppe scegliere l’anonimato ed una nuova vita. Uscì di scena da star qual’era, rifiutando i mali di una società ancora maschilista nel suo progressismo urbano di facciata. E fece il gioco di quella stessa società incarnando per l’ultima volta il mito del sacrificio, della donna oppressa e vittima in una Cina che sarebbe cambiata, prima o poi.
A Ruan Lingyu resta l’immortalità degli artisti: sono passati più di settant’anni dal suo suicidio, ma c’è ancora chi la ricorda e chi ne scopre la bellezza. Ascoltando quella musica sembra di vederla addormentare il figlio e gettarsi nella notte di Shanghai tra il vociare dei vicini e gli sguardi avidi degli uomini, mentre cerca solo di essere una madre tra le tante. Chissà com’era difendere la prostituzione contro l’ipocrisia sociale nella Cina degli anni venti e trenta, quando il sogno del futuro migliore era stato appena concepiti ed era possibile credere nel bene e nel progresso. Ci pensavamo qualche giorno fa, in una sala dove è stata proiettata la versione restaurata di una delle pellicole più importanti del cinema muto cinese, Shénnü, musicata da un gruppo di artisti belgi e cinesi.
Eccola, Ruan Lingyu, ancora oggi entra nei locali recitando la parte di una prostituta sublime. Ogni volta che percussioni, archi, tastiere e chitarre crescono come incedere. Una pulsazione che unisce artisti e spettatori di paesi e culture diverse; da ieri a oggi un ricordo che presta il volto all’universalismo dell’arte.

Titolo:
Shénnü (神女, 1934)

Musicisti:
Matthieu Ha (voce, fisarmonica)
Song Yuzhe (bānzhuólíng)
Xiao He (chitarra)
Yannick Dupont (percussioni, chitarra)
Eric Barbosa (tastiere)
Quentin Manfroy (flauto)

venerdì 17 settembre 2010

Vederti, rivederti e perderti una volta di più

Se tutto questo fosse veglia immota. Di un soldato che alle luci dell’alba sogna mondi diversi a pochi passi da un accampamento di carne e ossa. E il respiro della caccia tra alberi e tropici, un ansimare che si avvicina senza volto. Se fosse solo immaginazione di chi vuole fuggire dalla violenza di una guerra. Allora capirei. Sentirmi come una di quelle espressioni che potrebbero rovesciare addosso parole su parole, per questo sono seduto sul divano senza parlare.
L’ho chiamata folk plays perché aiuta a distendermi. Tunng, matt elliott, patrick watson, zhou yunpeng, lhasa, cat power, soap & skin, emily jane white, autumn shade, alela diane. Gli ascolti di un anno potrei dire. Possibilmente donne, un certo tipo di attitudine femminile all’arte. Chissà perché. È difficile capire, però nelle migliori storie i personaggi vivono di vita altra e staccata dallo scrittore. Poi le chitarre crescono nei minuti: le luci della centrale, xie tianxiao, electrelane e, apoteosi, 65days. E non è più possibile pensare a nulla.
Ero fuggito da un bacio e da possibili risvolti d’amore. Come un ribelle fallito mi rinchiusi in un altro aereo con il suo catering asettico che sa di ospedale. Mi sono mascherato con i panni del sogno appena sceso all’aeroporto del circo delle illusioni. A volte mi chiedo se il marchio Beijing non sia perfetto per chi vuole passioni, in fondo non c’è differenza tra il credere in qualcosa e che ti facciano credere in qualcosa di prefabbricato. Almeno non per chi crede.
E poi, e poi e poi... cantava un vecchio pezzo che finiva mormorando sconfitto “...l’importante è... è finire”. Avevo aspettato questo momento da un sacco di tempo, ne avevo lambito i contorni, immaginato le atmosfere e le colonne sonore. Lo avevo avvicinato ai migliori amori intrisi di pellicola che conoscessi. Un ricordo atteso per quattro anni. Gli anni passati si erano avvicinati ad essere ricordo soffuso e confuso, una certezza coperta di dimenticanze compensate di particolari leggendari. Non mi interessa la realtà, preferisco il sogno e l’arte, adoro big fish.
Dove eri finita? La tua casa nascosta dalle luci. Non riuscivo neanche più a trovarla. Secondi di vita strappati al fumo, sguardi rubati a persone felici. Albe e notti, attese e assopimenti. Altro, perché amo vivere. In fondo era solo una delle parti di eterno infinito della mia vita, sapevo staccarmici, sognare altro e viverci senza. Ma è di un bagliore che non so dire, uno di quegli stati d’animo che non sanno esprimersi a parole.
“Ho fatto un sogno, la scorsa notte: un pesce sulla terra avido di respiro”.
Poi è scesa a terra e tutto andò diversamente da come mi aspettavo. Sempre il suo respiro caldo e la sua pelle splendida. Sempre quel parlare a due che è racconto e poesia, quell’intorno che non c’entra niente, quel senso di pace familiare. Sempre abbondanza di pensieri e strade vuote alla ricerca di casa, anelli da percorrere in solitaria a piedi e in piena notte chiedendomi perché. Sempre quella sensazione di vita, anelito pulsante. “Una volta pensavo di essere la migliore”. Potenzialmente sarei un gran rivoluzionario, un perfetto antagonista. Un anti-eroe di culto da mantenere all’ombra per fedeltà alla linea. Potenzialmente. Vorrei iniziare di nuovo a fumare. Tutto è andato diversamente da come mi aspettavo: due persone diverse in un posto diverso, vale a dire: una storia nuova.
Perché creare arte è così doloroso? Perché tessere sofferenze da aggiungere alle cicche sparse a terra? Perché continuare a violentare? E perché è così sublime? Cosa facciamo dei nostri sogni quando veniamo sognati e quando sogniamo. Non siamo poi così dissimili da Dio nel caso in cui esista.
L’alba è alle porte, l’ansimare è vicino. Solo il tempo di rendersene conto e voltarsi, nulla più. Un sibilo, una bomba e fine. Chi immaginava quella guerra si è portato via le storie di un soldato lontano da casa, me incluso. Chissà come sono morto nel suo immaginare. E come è svanita facilmente la mia attesa dopo tanta disillusione ed emozione distaccata. Sarebbe potuto essere questo, o quello. Gli incastri sarebbero potuti essere altri, sarei potuto essere immaginato in modo diverso e avrei potuto immaginare storie di vite diverse. Ma non c’è più tempo, ad ogni modo; non mi resta che essere il personaggio di altre storie pensate da altri scrittori. Da personaggio divenire autore e seminare lacrime da leggere. Eppure, è stato ugualmente un grande amore.
Fine.

mercoledì 8 settembre 2010

Sulla scrittura

Mi accade di scrivere ultimamente, non per me ma per altri. Mi capita di parlare, di non riscontrare ideali artistici dati per scontati, sempre con maggiore coscienza, nel tempo. Mi capita di infastidirmi nel vedermi cambiare una forma, suggerire una parola al posto di un’altra, e di non capire perché dovrebbe essere meglio così che in un altro modo, come l’avevo pensata io. Per me era tutto ovvio, prima, meno per altre persone: quando si scrive la prima cosa non è il significato, non la chiarezza, non la linearità. E a sentire che molta gente la pensa diversamente mi lascia in un angolo. Non ho mai pensato di scrivere in modo irrazionale o ermetico. Contorto, quello sì perché ho preso un’abitudine pesante nel tempo, di pensare le cose da ogni angolazione e infilare ogni ombra e ogni riflesso ad ogni costo. Dire (scrivere) ogni passaggio di ogni pensiero. Quello sì, non mi è mai piaciuto in quello che scrivo. Ma criticare perché una cosa è poco chiara...
Come se si potesse comunicare solo un’idea e non un’estetica, un suono, un’immagine, un moto d’animo in ciò che uno scrive. Tra l’altro: la comunicazione per capirsi è sempre stato un ideale estenuante, avvicinabile come ogni ideale, per carità, ma mai raggiungibile (come ogni ideale). Si può intuire e in una certa misura anche capire. Ma quante volte quello che dico arriva a te come l’ho detto io. Quante volte quello che sostieni con tutte le forze lo ritrovi nelle mie orecchie. Per non parlare di quando si hanno opinioni diverse e si inizia a difendere se stessi prima di capire l’altro. Che poi, quando ti capita di dire o sentirti dire “ho capito” non ci crede nessuno e si è solo stanchi di discutere/lottare per convincere/difendere le proprie torri di certezze. L’arte, il vecchio interrogativo sempre buono per smarrirsi e ritrovarsi: ascoltatori, osservatori, critici avranno recepito proprio quello che l’artista voleva dire? No, ma il bello è proprio lì: trasmettere attraverso un’emozione o un’idea propria per far sì che l’altro ci ritrovi proprio quell’emozione di cui aveva bisogno per riconoscersi. È questa l’arte dell’arte, creare e ritrovarsi nelle creazioni altrui per rassicurare il proprio essere.
(Sto scrivendo per estremi e questo non piace neanche a me).
Il problema è che quando uno non capisce gli stati d’animo di un cantante o di un poeta e li legge con la propria lingua, pace. Quando ci si scambia idee bisogna capirsi però, altrimenti o si spreca tempo o si effettua un percorso di crescita troppo personale, in cui l’altro non viene recepito o respinto ma è solo un referente su cui costruire, smontare e accettare potenziali approvazioni e opposizioni al proprio discorso. Un alter-ego immaginato più che vissuto. Poi ci si può pure illudere di capire, magari si può anche avere la sensazione o intuire (livelli ben più alti della sapienza) l’altro. Si può persino sentire di capirlo. Ma non lo si capirà mai fino in fondo, altrimenti smetteremmo di parlare, scrivere, litigare, discutere, sorprenderci, fare la guerra, urlare, stupirsi, dare per scontato, fare la pace. Tutto sarebbe superfluo.
E allora? Ho pensato a lungo di nutrire una sfiducia implacabile verso la comunicazione, parlata o scritta. Ma non era così. E l’ho visto quando ho iniziato a infastidirmi perché le persone per cui scrivo hanno cercato di cambiarmi proprio quella parola che mi piaceva tanto. C’è sempre da imparare da chi fa un mestiere da più tempo di te, che sia un giornalista, uno scrittore o una professoressa. C’è sempre da migliorarsi. Non ho mai avuto un ego troppo pieno e neppure troppo vuoto: a volte lascio andare troppo facilmente, altre mi blocco su dettagli, altre ancora difendo un mio modo di essere. Così, a volte posso migliorare nello scrivere, altre avrei potuto intestardirmi, altre difendo il mio modo di essere nella scrittura.
Scrivere implica una trasmissione, anche se da rimodellare almeno in parte. Se non amo trasmettere idee è perché non mi piace che le idee siano fraintese e mi uccide pensare che viviamo in un mondo di riscrittura di significati secondo l’essere di ognuno. Però amo scrivere. Perché oltre al significato c’è qualcosa di più alto nella scrittura: il suono di due parole accostate, la bellezza estetica di una frase, come se si potesse sfiorarne la forma, il contorno e la consistenza. L’immagine. Perché se non so spiegarmi posso sempre dipingere per dare un’impressione. Per dare impressioni non bisogna sviscerare riflessioni e significati, basta rendere una sensazione con delle parole. Un pensiero non deve essere inattaccabile ma intuibile nello spirito per essere una base su cui aiutare l’altro ad esprimere se stesso. E per far sì che tu possa cogliere un’impressione di quell’espressione per aggiungere una nuova immagine in te stesso, da trasmettere infinitamente e mutevolmente.
I significati non sono inutili. Ogni volta che si sceglie una parola lo si fa perché se ne coglie un aspetto. Ignorando i significati si priva la parola di ogni valore. Ma a dovere essere negata è la comprensione completa del significato di una parola, non una delle sue ombre o delle sue luci, dei suoi riflessi. Cogliere una luce, renderla attraverso una pittura per dare la possibilità ad uno spettatore di trarne un aspetto, da imprimere in una nuova immagine e rendere in un testo lirico da cui assorbire lo spirito di un passaggio... Non amo lo slancio del realismo, la volonta di narrare i fatti. La scrittura è impressione, descrizione soggettiva e, perché no?, creazione. Arte. Anche quando si scrive un articolo per parlare della Cina. Anche quando si scrive una tesi di dottorato. (Con i dovuti compromessi perché non si vive da soli ma in un’entità pluralista, la società, dove esistono delle norme). Per non parlare di quando si scrive una poesia, una canzone, si gira un film, si scatta una fotografia, si scrive un libro.
Anni fa una persona (poco dopo avermi soffiato la mia ex ragazza per un po’), leggendo una poesia che avevo scritto, mi disse che ero un pittore e non un poeta. Mi ha sempre fatto piacere ripensare a quelle parole, perché mi sono sentito compreso nella mia attitudine di non volere comprendere né far comprendere. Una dimensione che non fa troppo caso alla coerenza e all’inattaccabilità di una posizione.
Contro ogni sistematicismo, sempre. Scrittura, arte, rivoluzione e sogno.