martedì 13 maggio 2014

Elise Didier


Sotto il revolver una striscia che volteggia sotto pelle, inchiostro nero. Ti ha cancellato, Didier, ti ha cancellato come altri nomi prima del tuo. Perché la vita non realizza la felicità, ma crea illusioni e annega nel dolore della morte di vostra figlia. Perché il dolore viene interiorizzato molto diversamente. Perché il dolore richiede tempo, a ognuno il suo, e non solo. Richiede attenzioni, le stesse che vorresti per te. E respinge attenzioni, perché nessuna attenzione può restituire il cadavere di una bambina di sette anni. E ogni parola è ferita di coltello, accusa agra, accusa cattiva. La morte rende egoisti per necessità, la morte crea abbandono e arresto inenarrabile. La scena precedente la passione vi avvolge come ricordo vellutato, la scena successiva non sapete toccarvi. Siete solo essere umani, condannati a morte che non vi separi. Vi promettere eternità nella gioia e nel dolore ma ciò che ieri era normale pronunciare oggi non vale più. Fragili esseri umani, neppure la roccia rimane immota, scavata nei secoli dal vento, siete solo roseau pensant che amano immaginarsi eterni. Avete lottato, avete sperato, avete creduto e ora cantate il bisogno di soccorso e niente può salvarvi, la mano non si tende, la mano non riscalda, la mano affoga il respiro. Ho bisogno di calmanti per acquietare le lacrime di tre giorni e la mia separazione. Mi viene da ringraziarti per la fiducia. Confidenza preziosa che rimbalza e si confonde con la regia. Ma Elise ha un nuovo nome tatuato sotto pelle, Alabama. Anzi due: Alabama. Monroe. Uccelli protesi tra radici bluegrass e futuro. Uccelli che sbattono sulla terranda. Che non riconoscono vetro. Che divengono stelle. Per chi ci crede.

Canzoni del mese:
Andrew Bird, If I needed You (cover)
Natacha Atlas, Gafsa
Joan Baez, Famous Blue Raincoat (cover)
Simona Sciacca, Cu ti lu dissi
Domenico Modugno, Cosa sono le nuvole
Ásgeir, Heimförin

venerdì 25 aprile 2014

Crisi


Crisi. Immaginiamo una crisi, anzi due. Una matrimoniale. L’altra esistenziale. Diamogli due abiti diversi, uno reale e uno fittizio. Attraverso due vissuti agli antipodi. Il primo quotidiano, apatico e fatto di ambientazioni con i piccoli problemi di tutti: sveglia, lavoro, ritorno a casa, famiglia e stanchezza di fine giornata. Immergiamolo in un vuoto comunicativo, cosciente che parola sa essere coltello e provocare lacerazioni. Ancora prima che un cuore spezzato dal dolore immaginiamo una carta lacerata, una separazione. Una distanza. La scelta di non parlare per un pregiudizio. Perché tanto sarebbe inutile. Per il secondo vissuto invece prendiamo il personaggio senza nome di un libro. Probabilmente non ha nome perché pur essendo protagonista nella storia non lo è nella vita. Vive in Colombia e rimane orfano presto. Si ritrova a essere  prima comunista, poi teppista, soldato, asceta, paramilitare, burattinaio, in combutta con il narcotraffico e la politica corrotta e infine esule. Non c’è niente di strano in questo continuo cambiare, anzi resta sempre se stesso e non si avverte nessun paradosso. Cade, si rialza e ricade. Infine, stanco, con gli occhi pesti e il sangue in bocca, sta per scegliere la morte alle porte del 2000 in un appartamento di Madrid. Ma non muore. E rimane lì, sospeso nel vuoto di un nuovo secolo che è il vuoto di un paese. 

Se la prima crisi avesse delle immagini sceglierei queste, bellissime, dirette da Paola Rotasso:



Se la seconda crisi avesse delle parole sceglierei queste, articolate da Sergio Álvarez:

Inizio a pensare che i comandanti abbiano ragione, tu sei ancora comunista. Non capisci, gli dissi. Sì che capisco e so bene come si chiama quello che hai. Come si chiama? Vigliaccheria. Può essere. E sai cos’è peggio? Cosa? E’ per questo che sei nella merda fino al collo, per questo non hai una vita, né una famiglia né soldi. Cioè? Sei diventato vecchio e non hai ancora capito come funziona questo paese. E come funziona?, chiesi. Bisogna uccidere, fratello, in questo paese chi non ha ammazzato o non ha ordinaro di ammazzare non va avanti. Lo guardai spaventato. Credimi, fratello, qui è la morte che comanda e chi non ammazza né ordina di ammazzare non è nessuno, non vale niente.


giovedì 6 marzo 2014

Tivoli

L'età della transizione - XIII tappa 
.
 .
La veste rossa appassisce al fianco del mio corpo angariato dalla gotta. Riesco a discendere le gradinate della loggia con difficoltà e capisco di aver consumato il mio tempo dietro alle passioni e alla bellezza, perdendo di vista la natura delle cose che avevo sotto gli occhi, lì scolpita sul crocefisso appeso al mio collo. Mi sono riempito di orpelli e ho inseguito le cupole della cattedrale delle cattedrali, la dimora di Pietro. Sconfitto trovai rifugio nelle arti e nell’antichità. Ho curato la mia carne con la carne, io Simon Mago in un mondo di mercanti di spirito, e ho alleviato il dolore nelle pitture e nei giardini, nelle feste, nelle alte frequentazioni e soprattutto nell’acqua. Nella genialità dell’acqua protesa verso l’alto prima di riscoprirsi attaccata alla terra, scorrevole su terra. Sono a te Rometta, che mi appari come la grazia di una carezza, arranco nella frescura estiva del viale delle cento fontane fino all’abbraccio caldo dell’Ovato. Sei tu Nettuno, il Dio dell’umana caduta, la suprema ascesa infranta: arte e uomo, bellezza e morte nella mano protesa verso Nefeli e nel tuono di Zeus in furia. Ora la luce è spenta e mi abbandono alla Cristianità, ma prima di inerpicare un corpo che più non conosce salita mi fermo davanti a te, drago che donai a Gregorio Papa. Guardo te e cado. Cado. Cado, mentre la Roma dei poveracci dorme ancora. Finché non riscopriranno tutto questo, ma non so che farmene della Gloria eterna.

venerdì 21 febbraio 2014

Tradire d’amore


Non sono mai riuscito a condannare il tradimento, probabilmente perché di base lo considero umano. Anche perché sono convinto che non rappresenti un inganno della fiducia che un uomo o una donna ripongono nel partner. Nella mia vita, come quasi tutti, ho tradito e sono stato tradito. La mia natura è essenzialmente gelosa e l’idea che la persona che “frequento” possa “frequentare” altre persone mi corrode il respiro. Tendenzialmente preferisco non pensarci, essendo anche sentimentalmente abbastanza insicuro e non essendo neppure certo di saper esercitare un fascino irresistibile, anzi.
Proprio per gli effetti del mio logorio emotivo di gelosia ho cominciato a pensare giorno dopo giorno che il problema più che dal tradimento sia dato dalla gelosia. Sono arrivato a prendere in prestito teorie da equilibrista pur di difendere la compatibilità tra tradimento e lealtà nei confronti del partner.
Di base ho provato a convincermi che il tradimento è tale già a partire dallo spirito, dalle prime fasi di innamoramento, per quanto il senso del possesso venga ferito soprattutto quando la passione traditrice viene consumata fisicamente dal primo all’ultimo respiro e all’ultima goccia di sudore discesa su labbra altrui.
Che desideri o che faccia l’amore, che m’innamori cinque minuti per strada o che abbia una relazione di vent’anni con un’altra, che sogni o che scopi... Concettualmente cambia poco e tutto sommato non sono nessuno per imporre il desiderio d’amore, passionale o sessuale al mio partner. Non sono nessuno per monopolizzare tutto questo, anche perché sarebbe una realtà irrealizzabile, un bel castello in aria che potrei illudermi di aver costruito ma che cade senza neppure il bisogno di soffiare.
Il segreto della serenità è invece nella convinzione dei propri mezzi e del proprio ruolo all’interno della coppia. Questo sì, è insostituibile e basta a rendere unica una coppia, al di là di ogni desiderio fisico e di enfatuazione sentimentale. Al di là di ogni morale sulla fedeltà e a ogni istinto di possesso, che poi politicamente sarebbe pure una manifestazione borghese. La vita però è altra. Se l’uomo tende a tradire è vero pure che tende a non sopportare il tradimento (è per questo che il comunismo non esiste?).
Molti dei tradimenti avvengono –o vengono immaginati- quando dentro la coppia uno dei due ha particolarmente bisogno dell’altro. Chiede supporto, sopportazione, pazienza, annullamento del sé, un eccesso di attenzioni per superare momenti difficili. In quel momento scatta l’insofferenza, la necessità di ritrovare il proprio ego da accudire e tutelare. Si crea squilibrio nel moto dare/ricevere. Di chi è la colpa? Di chi ha chiesto di certo no, poveraccio stava soffrendo come un cane e c’ha pure le corna. La colpa è di chi non ha saputo dare tutto per amore, in un momento di dolore, fragilità e necessità del partner. Ma annullarsi d’amore non è amore, perché amore è reciprocità. E se reciprocità non c’è l’uomo non tende alla distruzione ma alla sopravvivenza e va a pescare un nuovo equilibrio dare/ricevere. Che sia nella sua immaginazione, per strada o in un letto. Il dolore si cura in due e non mettendolo sulle spalle dell’altro. Egoismo è eccesso di concentrazione sull’io, ma non l’esistenza di un io.
Detto questo, esistono un sacco di canzoni perfette per tradire. In questi giorni, per me questa è la migliore: 

Dammi passione, anche se il mondo non ci vuole bene
anche se siamo stretti da catene e carne da crocifissione

Presto noi sogneremo distesi al sole di mille primavere
senza il ricordo di questa prigione
di un tempo lontano ormai 
 
Abbracciami e non lasciarmi qui lontano da te
Abbracciami e fammi illudere
Che importa se questo è il momento in cui tutto comincia  e finisce
giuriamo per sempre però
Siamo in un soffio di vento che già se ne va

C’erano le parole c’erano stelle che ho smesso di contare
perso nei giorni senza una ragione nei viaggi senza ritornare

Ora tu non spiegare, tanto lo sento dove vuoi il dolore
quando la notte griderà il mio nome
nessuno ricorderà

Abbracciami e non lasciarmi qui lontano da te
Abbracciami e fammi illudere
Che importa se questo è il momento in cui tutto comincia  e finisce
giuriamo per sempre però
Siamo in un soffio di vento che già se ne va

Neffa, Passione


Canzone del mese:
Haris Alexiou, Loreena McKennit, Tango to Evora

lunedì 17 febbraio 2014

Ritratto di città – Atac #3


Di passaggio in transito nella stazione metro di Termini (stazione centrale di Roma), in data venerdì 14 febbraio ho notato cestini della spazzatura stracolmi, traboccanti e ampiamente traboccati in alcuni casi, con cumuli di rifiuti a terra che urtavano passeggeri, passanti, viaggiatori e turisti. Sceso alla fermata di casa mi rendo conto che i cestini sono traboccanti anche qui. Motivazione: sciopero degli addetti alla pulizia. Citando dal corriere della sera online, l’Atac sostiene di essere impegnata nella risoluzione del problema e nel frattempo invita gli utenti «a non abbandonare rifiuti come carta o bottiglie negli ambienti di stazione o a bordo dei convogli e a utilizzare cestini e cassonetti collocati nelle aree stradali adiacenti alle stazioni». La Roma ombelico del mondo è una cità sporca, molto sporca, come notano molti ma molti stranieri e molti ma molti studenti e lavoratori fuori sede. Oltre agli innumerevoli scioperi proclamati ogni anno dalle organizzazioni sindacali, oltre all’ignobile servizio di trasporti urbani gestitio da Trenitalia (le brillanti FR, diversa gestione, identici utenti), mi torna in mente che lo scorso dicembre aveva scioperato il personale di stazione contro gli straordinari non pagati. La brillante forma di protesta adottata è stato il blocco di ascensori e di scale mobili a sorpresa per diversi giorni, diverse stazioni e in diversi momenti della giornata. Geniali. La mia stazione ha tre rampe di scale mobili che scenderanno in profondità almeno per trenta metri. Immagino (anzi no, l'ho vista di persona) la gioia di sessantenni con valigia di ritorno da un viaggio, disabili, anziani, cardiopatici... D’accordo, a Roma tutte queste categorie sono già abituate, visto che il servizio di manutenzione delle stazioni metro non brilla per puntualità e che gran parte delle fermate non sono accessibili ai disabili. D'accordo, siamo romani e al lamento tutto è consentito. Dovremmo pensare a forme di mobilitazione e di sciopero anche noi utenti visto il prezzo degli abbonamenti. In realtà sono sicuro che ci avremmo già pensato se ogni giorno non avessimo quest'abitudine di andare a lavorare senza diritti sul lavoro.

sabato 8 febbraio 2014

Ritratto di città – Atac #2


Siamo di ritorno e siamo stanchi. Io imbraccio il passeggino, lei il bambino e risaliamo le scale della stazione metro. Sento qualcosa che sta per sfilare via, mi giro di scatto e un ragazzo mi è poco dietro con l’aria distratta. Tira fuori il cellulare e penso di essermi sbagliato. Comunque il portafogli è in tasca, tanto mi basta. Lo guardo ancora, lui sembra non farci caso e tira dritto con un compare basco in testa sulla pelata e barba lunga. Appena richiudiamo dietro la porta lei capisce che le hanno fottuto la camera digitale dalla borsa. Ripenso ai due tipi dall’aria distratta e vestiti neanche tanto male. Quello con il basco aveva urtato di passaggio anche una signora straniera sui sessanta. Riscendo. Cerco in un paio di fermate bus affollate, ritorno nel mondo sotterraneo, che mi sembra sempre meno normale. Scendo tre rampe di scale mobili, le risalgo nell’altra direzione. Giungo in cima. Mi si gela il sangue. Sono loro, parlottano con altri tre tipi e d’improvviso non mi sembrano più così raccomandabili. Non reggo, mi cago in mano e decido di tirare dritto. Ma li fisso. Li fisso e assumo un’aria di disprezzo, che almeno sappiano che ho capito. Loro non hanno la mia stessa paura e mi chiedono che cazzo voglio e che cazzo guardo. Gli rispondo dicendo che sono loro ad aver fottuto la camera a mia moglie. Ma che vuoi, ripetono, c’è qualche problema? Continuo a dirgli ma che cazzo andate a fottere la gente che fatica a tirare avanti un giorno in più e che per permettersi di comprare una camera digitale di seconda mano deve fare mille sacrifici. Uno mi fa ma cosa vuoi, non alzare la voce, dimmi che vuoi e siamo a posto. Io ormai vado in automatico, rivoglio la digitale. Uno dei cinque allora mi chiede se voglio solo quello. Mi dice di non fare casino e di seguirli. Continuo a cagarmi sotto, sono praticamente circondato. Ma lo seguo. Di nuovo giù per le scale mobili e di nuovo su da dove ero venuto. Quando apro bocca mi fanno di stare zitto. La rivuoi o no la camera, e allora vieni con noi. Io ricalco sul fatto che non ho un cazzo da perdere, camera a parte e che se rubassero a chi ha cose da perdere non avrei nessun problema. Ma io a quello che compro un valore lo do. Quando si spazientiscono di nuovo decido di stringere amicizia. “Di dove siete”, chiedo. “Io Bulgaria, lui Albania, lui Turchia”. “E che tipo di posti sono”, replico. Il turco è il più tranquillo, mi fa capire che ognuno ha il suo ruolo. C’è chi ruba e chi viene derubato. Siamo in cima all’ultima scala mobile, sono deciso a bloccarmi e a non uscire con loro. Decido di non fidarmi e di restare in orbita videocamera di sorveglianza. Ma non faccio in tempo. Appena su uno dei cinque mi mette in mano la fotocamera come se niente fosse. Loro camminano verso l’uscita, io con altrettanta naturalezza saluto il turco e faccio dietro front per ridiscendere ancora, trofeo in mano. Sano e salvo. Incredulo. E ora che è passata penso. Penso a due tipi di persone. Il primo che tende all’accumulo di beni di consumo che è convinto di amare e che prima o poi lascia in un angolo, quando la passione si consuma. Queste persone pensano a cosa gli piace e cosa no, cosa vogliono dalla vita, si chiedono se desiderano, ambiscono o appagano semplicemente delle inclinazioni e degli interessi. Coltivano, costruiscono città e industrie per produrre e creare benessere. Sfruttano la natura e la rendono altro. Si inventano una società di servizi e mercati. Pensano al senso, creano l’idea del benessere e ne sono parte, chi più chi meno. Anche quando ci sono milioni di persone con più carta moneta. L’atro tipo di umanità è stata conquistata dalle città. Non produce e non può nemmeno muoversi liberamente perché deve riconoscere di essere residente in uno stato. Deve essere cittadina di una nazione. Probabilmente una volta queste persone erano nomadi dediti all’allevamento, alle praterie e alle razzie. Gente che terrorizzava i civili, con il rombo dei cavalli al galoppo e delle frecce. Ma anche con la libertà. La libertà di chi non accumula e di chi usa ed esaurisce. Di chi il giorno dopo non ha più nulla di ciò che ha rubato e lotta di nuovo per un giorno in più. Mi chiedo che libertà sia quella di cui si sono forgiati i cittadini liberali nelle loro rivoluzioni. Mi chiedo cosa pensa l’altra umanità della libertà dei civili. E poi penso a cos’è che è più normale. Se il mondo di sopra o quello di sotto.

lunedì 3 febbraio 2014

Ritratto di città – Atac #1


20:15, dal cielo qualcuno butta giù pioggia e pioggia, pioggia su pioggia. Pulsante. Grigio rigato, scavato. Grigio che fu metallizzato, le porte scorrevoli si aprono. Per un attimo non entro, anzi sento un’inconscia repulsione. Ma è una situazione quotidiana, un atto di routine che non si arresta, così le gambe si muovono fin dentro l’ascensore. Dentro cicche di sigarette, plastica annerita alla rinfusa e carta consunta. Fardelli di consumismo e sporcizie di vissuto impossibile da risalire. Riesco a isolare solo la puzza di piscio, intravedo catarro sputato. Lo specchio ricoperto di spray privo di criterio. Alzo lo sguardo. Pareti scarabbocchiate con pennarelli, come pure il soffitto guarnito da debole luce al neon. Black neon, mi viene in mente, pensando a un libro comprato di recente e il cui titolo sembra sintesi perfetta e ragionata. Tutto questo non ha ancora quindici anni. La metropolitana è il marchio di una città, un sangue che trapassa vene e arterie. La mia stazione è profonda, si scende molto e ho tutto il tempo di mettere a fuoco l’inquietudine che si prova nell’attimo in cui le porte si aprono. È solo l’ascensore della metro ma sembra la via d’accesso ai bassifondi dello spirito, di un’umanità dimenticata dalla società di superficie. Eppure la gente normale ci scende. Convinta che anche la metropolitana di Roma –tutte le strade portano a Roma, Roma caput mundi- sia parte della città di sopra. Che gli emarginati si nascondono in fogne ancora più basse e nascoste alla vista. L’ascensore si apre, davanti alle porte non c’è nessuno e posso riprendere a percorrere la mia razionale routine. Una. Due. Tre, quattro e cinque. Sono in cinque in tutto, parlano con l’accento dell’Est e sembrano non superare i 16 anni. Salgono le scale mobili e si accalcano a turisti inebetiti. Non so cosa gli fottano, ma fuori dai tornelli il mondo torna a farsi normale. Ci sono persino tre persone in divisa. Un uomo sulla quarantina si avvicina e dall’alto di un incomprensibile senso civico dice: “Ci sono delle ragazzine che rubano di sotto”. Tre uomini in divisa alzano le braccia in segno di impotenza. “Non so che farci” dice uno. Le avrei riviste, le cinque ragazzine, un giorno e poi un altro. Anche altri le riconoscono, due tizi constatano tranquilli: “Arièccole, sempre qua stanno”, “nun je fanno niente perché so’mminorenni, però poi esce fori che c’hanno cinque fiji a carico”. Appena fuori dalla fermata di Marconi mi trovo davanti una scala per raggiungere Via Ostiense. A chiocciola, non si vede chi c’è cinque gradini più in là. La puzza di piscio è insopportabile, black neon qui lampeggia e penso che sta per iniziare un horror giapponese, fanghiglia nera ricopre metà di ogni gradino scalini costringendo a scendere quasi rasente alla colonna centrale. So che qualcuno apparirà all’improvviso al prossimo passo, o dopo un altro ancora. Se lo aspetta chi sale e chi scende, ma è inutile aspettarselo, salteremo tutti e due lo stesso. Per poi riprendere il respiro e pensare che nei bassifondi di città è ancora normale non fare brutti incontri.

venerdì 24 gennaio 2014

La coppia di Nanjing

Guardo cielo e nuvole, sul piazzale, davanti a una chiesa che avrà centinaia di anni. Groviglio di turisti, tedeschi, cinesi, giapponesi. Ieri sera, al momento di stendermi sul letto ho pensato che è dura trovare un senso a volte. Il cellulare squilla, tutto come pattuito. “Alla tua sinistra, due furgoni. Neri.” Riaggancio. Dai vetri del primo mezzo si intravede una donna, sui trent’anni. Mora e riccia, è lei che ha chiamato. Salgo nel furgone, sono in due. “Ciao, Valerio”. “Piacere, io sono Ilaria”. Parla lui, parla per pochi minuti. Mi dice che sarei andato avanti con Ilaria, una volta dentro avremmo individuato la merce, li avremmo fatti parlare per vedere in quale lingua ci avrebbero capito. Poi subito fuori, finito. Sarebbe intervenuto lui e li avrebbe messi spalle al muro, senza vie linguistiche di fuga. Va tutto come previsto. Mani nel sacco, una coppia di Nanjing. Cordiali, mi chiedono dove ho studiato, dove ho conosciuto mia moglie. Aprono tutte le confezioni, consigliano, sono gentili. Come sempre, come il 99% dei cinesi quando scoprono che qualcuno si è interessato alla loro lingua. Dopo tutto quello che è successo. Io e la finta zia Ilaria usciamo dal negozio, in busta abbiamo pistola e laser, missione compiuta. Entra Valerio e li inchioda per bene. Sa che capiscono l’italiano, a scanso di equivoci mi richiama dentro per ripeterglielo in cinese. Non devono più venderla quella roba lì, è pericoloso. Capita l’aria che tira la coppia di Nanjing si fa piccola, si nasconde alle telecamere, non è colpa loro –dicono- il proprietario è un altro. Neanche dieci minuti siamo di nuovo fuori, missione compiuta. Un lavoro pulito, tutto liscio come l’olio. O quasi. Che cosa è pericoloso, mi chiedo. E’ pericoloso vendere quella roba li, è pericoloso anche andare più a fondo. Dietro a quelle facce e a quel nascondersi dietro al bancone cosa c’è? La paura di essere riconosciuti? La paura che qualche documento non è in regola? La paura di dovere tornare indietro dopo aver trovato chissà come il coraggio di lasciare tutto per un posto che fino a pochi anni fa non sapevano neanche in che punto del mappamondo poteva mai stare? L’impossibilità di un rimanere o l’impossibilità di farsi una vita normale lontano migliaia e migliaia e ancora migliaia di chilometri da casa? E’ ancora così pericoloso vendere quella roba lì se è tutto così impossibile? Di che vissuto siete fatti? Chi siete oltre a essere i due che vendono quella roba lì? Al pubblico questo non interessa. Al pubblico interessa che avete venduto quella roba lì. Interessa la missione compiuta, senza andare troppo a fondo, che vivere è già abbastanza complesso di per sé. Al pubblico interessa confermare lo stereotipo. I cinesi vendono roba contraffatta. Roba che fa male. Rova pericolosa. E farsi una bella foto con Valerio all’uscita del secondo negozio. Se la fa un bel ragazzone alto, grosso e pelato, se la fanno due poliziotti di passaggio con un bel tablet, se la fa la parrucchiera del negozio di fianco. A televisioni spente quei due hanno ancora una vita. Stanno andando a letto, proprio come voi, e domani si alzeranno, proprio come voi, per un giorno in più. E chissà se dopo ciò che è successo oggi, anche grazie alla mia bella performance, staranno pensando che effettivamente quella roba lì è pericolosa. O se al momento di stendersi sul letto hanno pensato che è dura trovare un senso a volte.