sabato 2 ottobre 2010

Cina, musica, folk. Sentirsi in Cina.

Non so il perché. Proprio per non essere riuscito a capirlo ho rimandato questo post di giorno in giorno. Attendere ancora, però, significherebbe perdere un pezzo di quello che sento; non potere rendere qualcosa che ha assunto i contorni sbiaditi dei ricordi in via di allontanamento, divenire storia da raccontare.
E allora eccomi a parlare di qualcosa senza sapere come. Questa è una storia che potrebbe iniziare con l’immagine di una radura come tante. Nel verde e tra due costoni, come fosse un nascondiglio dei piatti pascoli mongoli. C’è fango a terra, piove da giorni ed è apparso il primo freddo, ma oggi brilla il sole, senza esitazioni. Oppure potrebbe cominciare con un commento che mi è rimasto nella mente: appena arrivato in Cina, desideroso di capire e conoscerne la musica. Una mia amica ben più esperta, ottima ascoltatrice, mi disse che sì se ne parla tanto ma il neo-folk cinese non è poi tutta questa cosa, nulla di nuovo. Ed io a provarci, ascoltandolo, a farmelo piacere ma non mi lasciava nulla. Quattro anni fa.
Non so cosa sia cambiato, non c’è stata illuminazione, piuttosto un vissuto senza prestarci attenzione, un giorno dopo l’altro. Ed oggi sono prigioniero di quelle voci, degli strumenti, dei suoni tradizionali e di un’atmosfera. Perché come dice Xue Yugang, fare musica è tratteggiare un’atmosfera, condurci dentro l’ascoltatore e lasciarlo lì, in balia di una forza del tutto staccata dal mondo reale.
Neo-folk, mínyáo (民摇). Forse non è proprio così. Perché quando sento un cd di folk cinese è vero, magari sento un’atmosfera. Ma quando lo vedo dal vivo io sento la Cina scorrermi nelle vene, o almeno –la Cina è tante cose, belle e brutte- sento un’essenza che si manifesta, quello che dei cinesi e della Cina amo. Sento un modo di fare e vivere l’arte, anche se sì, è vero, cazzo in fondo suonano solo una chitarra e delle percussioni, spesso con musiche scarne, e cantano. Ma quel modo di cantare e di fare musica. Quei testi. Di più non so spiegare, solo suggerire.
Nel quadro c’è da immaginare un pullman di due ore, un verde che cresce allontanando frustrazioni metropolitane, un sentiero di alberi e ragni. Intorno. Al centro quella radura, lo scrigno dei pascoli. Zero sponsor, un palco piccolo. Gli organizzatori sono una band mongola che gira da un decennio, si dice che prima facessero metal o punk. Oggi sono la band più famosa di mínyáo negli States, a parimerito con quel fenomeno da baraccone di Sa Dingding e dei suoi fottuti canti alla Ricky Martin in sanscrito e tibetano. Poco pubblico, metà cinese metà non (ma ben selezionato).
Ci sono anche la donna che amo e le persone giuste per condividere.
Non so come nasce il mínyáo. Potrebbero esistere almeno un paio di versioni al riguardo. Potrebbe significare, come dice Zhou Yunpeng, un cantastorie sospeso tra arte (poesia) e popolo, quell’essere tra la gente e l’esserci come cantore. Quel mínjiān (民间) che troppo spesso oggi viene associato all’idea di società civile, per me un’idealizzazione un po’ intellettuale. Questa spiegazione credo sia vera, ma a me sembra un qualcosa che si è aggiunto solo in un certo tipo di mínyáo e solo in un secondo momento. Un’altra versione è quella di un mínyáo ancora non riconoscibile in una scena. Veniva cantata dai primi gruppi, rigorosamente provenienti dal sottosviluppato Nord-Ovest cinese, convogliati nella centripeta Bĕijīng che si apprestava a divenire metropoli. Parlavano di una terra lasciata alle spalle, di alienazione dell’artista in una Cina ufficiale che guardava altrove, di idealizzazioni del passato, dell’origine, di tradizioni e di un fiume. Il fiume.
Convogliarono in un locale, il The River. Fondato dai membri degli Yiě háizi (Wild children), fu il posto dove Xiao He e Wan Xiaoli registrarono i loro primi album. Poi Xiao Suo, il cantante degli Yiě háizi, morì e il The River fallì. Ma qualcosa era sorto e la scena aveva assunto una forma. Hanggai, Mamuer e gli IZ, Zhou Yunpeng, Suyang, Wang Juan, Zhang Muyang, Wu Junde ed i Lüxíngzhě, Song Yuzhe, Li Zhi, Měihăo Yàodiàn. Tutti diversi ma con simili vibrazioni in moto.
Ero lì, fra terra e odore di erba. Per una volta posso pensare che c’ero anch’io. Un pezzo di una storia anche se intorno non c’erano sponsor, televisioni, critici, esperti. Anche se di questo festival non se ne è accorto nessuno e nessuno se ne ricorderà se non i (troppo pochi) presenti. Lontani i cocktails ed i vestiti da serata, solo musica e lo spirito di chi fa quella musica, artisti veri riuniti solo per suonare. Era ormai sera quando Urcha, voce degli Hanggai, è salito sul palco per la seconda volta, prima che le luci si spegnessero sulle emozioni spese. Ubriaco, si è commosso ringraziando il pubblico, senza di cui ha detto loro non potrebbero esistere. Poi ha preso il microfono e iniziato a cantare, solo voce e di un canto che insieme usciva dalla terra, dalla gola, dal cielo e dalla luna. Prima fila, un vecchio (ce ne erano due in tutto) ha iniziato ad applaudire in modo forsennato e urlare la sua approvazione. Lì per lì ho pensato avesse bevuto pure lui, ma guarda se questo qui non si sta zitto. Ma An Xin mi ha detto poco dopo che quell’uomo, una vita alle spalle, una camicia d’altri tempi, stava piangendo per l’eccitazione ed era tutt’altro che ubriaco. Andando a dormire ho sentito che quella notte tutti i presenti avrebbero sognato, risognato e dormito di un sonno tranquillo.


Ascolti, a questo punto fin troppo scontati, del mese:

Lüxíngzhě, Lüxíngzhě (旅行者, I viaggiatori)
Zhou Yunpeng, Jiŭ Yuè (九月, Settembre)
Zhou Yunpeng (o Wang Juan, o Wu Junde, meravigliosa in tutte le versioni), Yŏng gé yījiāng shuĭ (永隔一江水, Un corso d’acqua per sempre diviso)
Song Yuzhe, Lièrén (猎人, Il cacciatore)
Zhang Weiwei e Guo Long, Yăn wàng zhe běifāng (眼望着北方, Guardare verso nord)
Zhang Quan, Sì jì gē (四季歌, Il canto delle quattro stagioni, canto tradizionale giapponese)
Hanggai, Hăilā hăilā (海拉海拉)
IZ, Êdil-jayeҚ
Wang Juan, Zuìhòu de tàngē (最后的探戈, L’ultimo tango)

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