lunedì 29 luglio 2013

Hanno tutti ragione


Oltre a star dietro a una macchina da presa scrive pure, Paolo Sorrentino. Con gli stessi limiti che gli si attribuiscono da regista: un certo squilibrio nel dosare le parole, a sovraccaricare con esuberanza riflessiva. E un certo eccesso nel gusto del pathos, dell’emotività –trattenuta, sviscerata o manifesta che sia. È vero, son limiti che mi sembrano condivisibili, con tutto l’amore che provo per i suoi lavori. Ma chissenfrega della perfezione, quando ci si trova di fronte a una riflessione di tale onestà e intelligenza umana. Guardarlo al cinema ti astrae dal mondo (“È per questo che non vado mai al cinema. Quando lo spettacolo finisce, fuori c’è la caducità della normalità. E questa escalation brutale, violenta, mi fa soffrire come un povero uomo tra i poveri uomini. Mi fa sentire fuori dalla vita alla quale vorrei appartenere per sempre. Quella del film. Fuori, è tutto uno stupro”), leggerlo è un tuffo nella profondità che la percezione dell’animo umano può raggiungere di fronte alla vita, alla natura e alla coscienza. Eccolo qui un pezzo di Sorrentino, un passaggio tra i più rappresentativi di quel presupposto de La grande bellezza che è stato Hanno tutti ragione sotto forma di libro:

“... E tutti lì a tormentarsi su queste quattro lettere che toglie loro il respiro: figa, figa, figa, figa, figa.
Non dormono tutta la notte, l’appetito se ne va, si bombardano di schifezze da tutte le parti per avere la cosiddetta erezione (che brutta parola, erezione!) per introdurre, introdurre, introdurre.
Questo l’obiettivo, lo scopo, la ragione di vita. Cosa c’è attorno? Niente. Non sentite odore di morte? La morte non è la scomparsa del desiderio, quella alla mia età si fa irreversibile e fisiologica. Che cazzo ci vuoi fare? Macché! La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il desiderio è stato sempre perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e variopinta del linguaggio. Vanno a braccetto , come le commarelle.
Ma non è sempre stato così. Sessantasei anni fa, mia moglie si è voltata e mi ha guardato come non mi aveva mai guardato. Mi ha guardato come il sentiero s’illumina d’incanto, mi ha guardato come il bambino divertito dagli schizzi d’acqua. Così mi ha guardato ed è stata la rivoluzione di me stesso. Non sto dicendo che mi sono innamorato. Sto dicendo che mi sono eccitato l’anima per una torsione del collo. Vero Carla? Te lo ricordi, Carla? Eravamo ragazzi, Carla. Tutta l’incredulità del mondo ci cadeva addosso senza pudore. E quelle vampate nella scoperta della tenerezza, Carla, ma non valevamo più della vita stessa? Io penso di sì, Carla. Annuiscimi ancora una volta, Carla. Lo hai fatto per tutta la vita, non me lo negare adesso. Adesso che trascorro le giornate a salutare il mondo perché ogni giornata si preannncia come l’ultima. Annuiscimi ancora. Abbiamo sudato le nostre ascelle con lacrime di commossa partecipazione mentre ci baciavamo a Capri. Dentro i labirintiti dell’estate perenne. E un attimo dopo progettavamo la grandezza della famiglia. Progettavamo la responsabilità, come antidoto a tutti i mali esterni che pure ci sono stati. La responsabilità, l’unico rimedio scientifico contro l’horror vacui. La partecipazione emotiva a tutte le sfumature uno dell’altro. Una morbosità indispensabile, Carla. Sentire le proprie spalle accarezzate dalla mano libera, Carla.
Ma dove stavamo? Sospesi e galleggianti nell’istante. Se solo un dio avesse potuto cristallizzare il nostro sentire. Farci stalattiti umane per tutto il tempo. Non avremmo trascorso i successivi sessant’anni ad acchiappare disperatamente l’istante andato e che non è tornato mai più, perché corrotto dal nostro sapere, dal nostro aver provato, Carla. Abbiamo vagato in coppia, come i barboni all’angolo della strada, alla ricerca non del Tavernello, ma dell’istante e degli istanti amabili. Ma come è stato bello, Carla, il tempo in cui l’ingenuità era una risorsa e l’ignoranza un concentrato di saperi. E i fiori dell’estate che opprimevano i nostri cuori, anche questo ci dicevamo, addensati dentro una retorica possibile e dannunziana, perché esclusiva e condivisa dentro i nostri occhi tristi e felici, l’unica retorica possibile, Carla. Vivere insieme, Carla, come noi abbiamo scelto, ierofanici, ossidionali, ineffabili, ha voluto significare anche cogliere il senso del ridicolo di tutti e due, da soli e insieme, e ammirare, con forza e perseveranza straordinarie, quel senso del ridicolo che scappa via dalle gonne e dai pantaloni, come la vipera che vedemmo a Maratea sotto brutti fuochi d’artificio. Estenuati dalle nostre stesse, infinite parole, fluttuati nei rigurgiti rumorosi della noia e delle noie reciproche, eppure estaticamente assuefatti a quell’idea di unicità, di insostituibilità che non ci ha reso unici, dal momento che nessuno è unico, ma insostituibili sì.
Ecco, questo siamo stati, insostituibili.
L’amore è l’insostituibilità...

Paolo Sorrentino, Hanno tutti ragione, Milano: Feltrinelli, 2010.


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