lunedì 13 giugno 2011

Sulla democrazia (in tempi di referendum)

“Sto diventando sempre più anti-democratico”.
L’interlocutore impallidiva, una frase del genere diede forma a spettri su cui l’essere umano (propriamente europeo) non aveva fatto ancora pace con se stesso.
Di mezzo c’era la memoria storica, ancora calda; la follia dei nazionalismi, l’olocausto, Hitler, il male. Uno dei pochi mali sopravvissuti in un’epoca di attenuamento dei bianchi e dei neri.
Per questo motivo l’uomo non riusciva neppure a concepire teoretiche alternative. Poi c’è il calcolo politico, per carità, per cui la democrazia viene dipinta all’opinione pubblica e al resto del mondo come il punto d’arrivo della civiltà, ultimo atto di un eurocentrismo che di danni ne ha fatti, eccome se ne ha fatti.
In Cina non c’è democrazia. Lì il governo è costruito su un partito, il partito si dice di rappresentare il popolo e governa. Chi non è d’accordo generalmente ha pochi mezzi per esprimere un dissenso e quando ci riesce ha ancora meno mezzi per avere un riscontro politico-sociale. Poi: se impatti frontalmente il partito è finita, ti schiacciamo come se non fossi nessuno. Sì, spesso non è che diventi il male, semplicemente e improvvisamente non esisti, la società cinese continua a girare e non sa nulla di te.
In Italia abbiamo tanti partiti e scegliamo il primo ministro, incaricato di governare attraverso l’esecutivo. Noi siamo civili, il popolo non è più massa ma essere responsabilizzato nella società, chiamato a partecipare alla vita politico-sociale del proprio paese. Siamo cittadini, viviamo nella società civile, siamo parte integrante dello Stato.
Il sistema democratico non è la perfezione del vivere in comune. La democrazia è immersa nella storia, come tutto ciò che ha a che fare con l’essere umano e le sue proiezioni terrene. Democrazia. Non esempio perfetto di civiltà, ma ideale che sobbarca difetti restando ancorato a terra. Occorrerebbe concepire e razionalizzare le necessità; esprimere insoddisfazione per allargare la base sociale del dubbio costruttivo, esercitare pressione, negoziare e ottenere riconoscimento dall’alto.
Voto, elezione, feste e lutti a seconda del vincitore, fine del dibattito pubblico. La democrazia rimane spogliata del suo pane: il confronto politico popolare, che si impanna sui colori e su reliquie di immaginari ideologici. Per non parlare dei topos italici, che pure la politica diventa una questione di tette e culi. La massa degli elettori è perennemente insoddisfatta, si perde in qualunquismi di condanna generalizzata e dice in coro che si stava meglio quando si stava peggio. Il nostro sistema ha ridotto al voto il simbolo del volere popolare, è questo che dovrebbe divenire inaccettabile. Perché il voto non è divenuto atto reale di responsabilità e partecipazione civica, perché il voto è un pretesto per lavarsi le coscienze e darsi un’identità politica. Forse tutto ciò poteva avere un senso nel dopoguerra, nell’Italia da ricostruire. Comunisti, monarchici, democristiani, ideologie e modi diversi di concepire la vita sociale. Oggi il liberalismo ha vinto e ci limitiamo a un dibattito su privatizzazione e pubblico privo di anima. Tutti dentro una società borghese che nel bene o nel male rappresenta i soggetti che ci vivono dentro. La scelta di chi governa ha perso di significato, le opposizioni si sono ricondotte a identità di vedute all’interno di un sistema con gli angoli smussati.
Le differenze di vedute permangono, anche nei programmi politici. A volte alcuni toni rievocano anche degli ideali dal sapore antico. Ma la società e i suoi bisogni sono omologati e la politica non può prescindere da ciò. Il vecchio proletario ha accesso ai beni di consumo e i nuovi poveri dalla pelle diversa sono abitanti di cui ancora nessuno si cura veramente, gente senza voce. Tanto quelli non sono italiani perché non ci sono nati nella terra che non c’è, ci vivono solo.
Al di là della vecchia sfida di responsabilizzare le masse, che di tempo e voglia per pensare al bene politico non è che poi ce ne sia così tanta, se pensiamo alla democrazia come un valore in divenire allora potremmo iniziare a pensare che la sovranità popolare non dovrebbe tanto essere rinchiusa nel diritto di scelta, quanto nel diritto di controllo. Elezione-fine dei giochi, assunzione del potere-inizio dei giochi. Suona ben diverso.
L’uomo disse: “Il potere non può essere alla mercè di un volere irrazionale e non calcolato di chi la politica non la fa di mestiere”.
“D’accordo. Ma allo stesso modo i valori di una società non possono essere alla mercè del calcolo politico, altrimenti il risultato è la società che abbiamo sotto gli occhi.”
Può esistere un equilibrio quando ci si trova di fronte al potere? Può esistere nella pratica un incontro tra chi detiene e chi subisce il potere? Democrazia è ideale irrealizzabile perché il potere –al di là dei palliativi- è prerogativa di pochi?
Forse non siamo poi così migliori come pensavamo, forse non siamo più evoluti. Forse non avremo molto da imparare, ma neanche tanto da insegnare in fatto di gestione del potere.
E pensa che all’interno del Partito comunista cinese esistono pure due fazioni politiche. Pensa che si scannano dietro le quinte. E poi ricorrono a uguali ideologie per giustificarsi di fronte al popolo una volta preso il potere. In Cina si scannano tra loro e dietro il sipario, nella terra che non c’è davanti alle telecamere. Ma poi chi sale al potere si glorifica sempre di libertà. Di cambiamento e riformismo, che di questi tempi è una moda sicura. Di democrazia.
Non è che il potere è sempre potere e che crediamo a un mucchio di favole pur portando vestiti da intellettuali?

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