venerdì 27 maggio 2011

La bolla di vetro

È come uno stato di semi-incoscienza. Un fremito ripetuto che non lascia divagazione e respiro. Solo una sottile pesantezza d’animo, ventuno grammi difficili da sollevare. Almeno quanto tutte queste valigie. Ricolme.
Quanto si compra, quanto si consuma in vita. Ce ne si rende conto solo in occasione dei traslochi. Spontaneo pensare che non sia tutto necessario, tutto questo tessuto, la plastica, la carta, le parole scritte e dette. Forse la mia vita non è così semplice come credevo, così priva di orpelli, di superfluo.
Domani sarà tutto diverso, oggi è già diverso. Fra quattro giorni lo sarà di più, dopo un’ultima chiacchierata nella vecchia università dei primi amori. Da Pechino all’infanzia, da un dottorato di ricerca che è percorso di crescita alla disoccupazione.
Mesi fa correvo dietro a un matrimonio di compromessi tra diverse usanze, alla ricerca di equilibri spersonalizzati ma accettabili ai più. Litigavo spesso, spesso ascoltavo Chūntiān lĭ di Wang Feng, per riconoscermi in qualcosa. Poco importa il revival commerciale del pezzo, e le radio dei taxi che lo trasmettevano, sul percorso da casa alla città.
Penso all’effetto che mi farà rientrare nella casa dell’infanzia dopo avere vissuto nella periferia di Pechino per pochi mesi. Due immaginari che sono ossimoro, lindo quotidiano e luàn abbandonato a se stesso. Ora non litigo più spesso, ma avrei voluto pensare, catturare il momento. Non ne ho avuto il tempo. Ascolto Guānghuī suìyué dei Beyond e Bĕifāng bĕifāng di Wan Xiaoli.
Il giorno che ho mandato in stampa la tesi di dottorato è stato un piccolo trauma. Prima ero abituato ad alzarmi, leggere libri, cambiare una nota, una forma di espressione, aggiustare il tiro, andare in biblioteca... Da un giorno all’altro più nulla. Leggo ugualmente ma non posso migliorare nulla, la forma è divenuta definitiva. Mi torna in mente Camus.
Da un palazzo di Shanghai scrivo queste righe. Nella mia vita Shanghai non significa nulla. Non sono ostile ma neppure attratto. Non mi appartiene. Ancora meno oggi che sono qui, di transito, tra ciò che ho amato e un luogo che avevo lasciato anni fa. Sono solito dire che Roma è un buon posto dove tornare, specie dalla Cina, ma non per viverci. Vedremo. Oggi però penso più a quello che sto lasciando.
La polvere, il vento e la fugace aria primaverile.
La vita di periferia lungo i bordi, tra gente comune. Staccato da loro, in mezzo a loro, uomo distratto che guarda da posizione privilegiata.
Un modo di affrontare la vita che è solo mio e di nessun altro, indipendente.
La musica cinese. So già che ascoltarla in terre lontane sarà diverso, come fosse spogliata del suo più immediato riscontro umano, o della sua condizione di esistenza.
Un luogo che amo, non per fascinazioni irrazionali, ma semplicemente per averci vissuto. Non fino in fondo, pensare di esserne stato capace sarebbe solo arrogante, ma con il bagliore di punti di contatto discontinui. Non serve capire “tutto”, darsi una spiegazione a qualsiasi cosa. Solo passarci attraverso senza farsi troppe domande, intenderne una coerenza. Pechino.
Le persone che ho incontrato e amato in sei anni irregolari di cammino. Dai 25 ai 30, un bel salto. Lascio su questa terra, tra queste persone parte di me. Come sempre avviene quando si appartiene a qualcosa. O a qualcuno.
Non riesco a guardare ciò che ritroverò a breve, non ora non qui. Oggi ci sono per ciò che lascio, finalmente un attimo fuori da quella bolla di vetro che è impedimento mentale, castrazione sentimentale. Sarà dura ricominciare altrove, vedremo cosa ho imparato da tutto questo.
La vita è trasformazione, arrivo che è ripartenza. Al primo albeggiare ho aperto gli occhi da un sonno poco tranquillo: l’ultima notte. Al risveglio ero triste, per la prima volta in questi giorni. La bolla si sta incrinando, percepisco che lascio un posto e delle persone in cui credo.
Wăn’ān Bĕijīng. Non aspettarmi, anche se so che non lo faresti mai per nessuno.

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