lunedì 28 marzo 2011

Song Yuzhe (宋雨哲)

***Senza pensarci troppo me lo immaginavo diverso il cimitero di Pechino. Incolto, poco curato; superficialmente, non saprei neanche dire il perché. Invece è razionale e asfissiante, le lapidi in fila non hanno modo di respirare, privazione di spazi. Nella quiete di un verde curato, come immaginario vuole.
“Lavorare qui deve essere bello”
No, forse l’immaginario non è proprio lo stesso.
Avete
riso, scherzato sulla lapide di un amico dopo solo due anni.
Non so neanche se sia per imbarazzo come mi hai detto
o per una forma di coscienza di fronte alla morte che non so neanche immaginare.
Non so neanche
se preferirei che fosse così, a tratti eravate convincenti nel ridere di fronte alla morte.
Io nel frattempo pensavo al fatto che accanto a ogni tomba c’era un albero. Immaginavo questi alberi crescere dopo la sepoltura e che in ognuno di essi si trasferiva lo spirito di un morto. E che mentre noi credevamo di guardare loro su una lapide fossero invece loro a fissarci da un albero, noi e la nostra ingenuità.
Peccato il traffico, che dopo quaranta minuti avevamo fatto massimo un chilometro e tanti ce ne sarebbero spettati ancora, nella folla e nel fremito. Peccato le persone di cui ci siamo circondati, ma non sempre si può pretendere molto dal concetto di compagnia. Mi sono trascinato stancamente fino a sera, aspettando del sollievo sotto forma di musica, che ovviamente è arrivato.
***Due volte in due mesi, Song Yuzhe. Avrei voluto dirgli: “Da parecchi mesi sei il musicista che sa rappresentare meglio la mia comprensione della musica”. Non l’ho fatto perché è uno alla mano e per evitare forme di idealizzazione proprio ora che ho in corpo una certa disillusione verso il mondo. Probabile che in realtà abbiamo due visioni della musica completamente diverse, in faccia a quello che provo quando lo ascolto.
Per un critico non sarebbe difficile parlare di sperimentazione folk cinese. E di ponti. Tra il passato –che sia un film muto che ha perso la voce ma non l’espressività, che siano popoli antichi e lontani dalla società urbana globalizzata- e il presente. Tra la gente comune che fa musica da tradizione e una platea che ostenta intellettualismi. Rivisitando con animo internazionale, strumenti tradizionali e una voce (che voce, dalla gola, dalla pancia, fondamentalmente da dentro, da cavità senza essere gutturale, primordiale ma articolata. E libera) canti etnici. Uno che sa cantare, che sa suonare e che è portato. Che non si ferma, che rivisita. Improvvisare forse no ma riconfigurare un’identità musicale spontaneaente sì.
Per me non so. Non saprei di cosa parlare né dire. Se non che lo ascolto. Non tutti i giorni ma che ogni tot mi viene da riprendere il cd e metterlo su, farlo girare, vivermelo e sentirmi vivo. Anche se poi in fondo parliamo due lingue –anche musicali- diverse. Ancora non ho preso in mano i suoi testi dopo mesi. Mi piace pensare che siano come te li fa immaginare la musica: immediati, che cantano una vita semplice non urbana, quasi scurrili (mi torna in mente Hao Jie...). Leggere, tradurre, appurare. Prima o poi.
***Infine,
Ieri un altro scontro post-matrimoniale, lacrime a doppio senso, riappacificazione con noi stessi. Mah, oggi scrivo in un parco con il futuro nella tasca dell’inconoscibile che sapremo mentre vivremo. E due biglietti in tasca, finalmente davvero due, per l’India. Forse Sikkim, forse parco nazionale himalayanico. Prima di partire voglio rivedere Three Idiots e commuovermi sull’idealismo indiano a lieto fine. Anche questo voglio farlo in due.

Album del mese:
Da wanggang (大忘杠), Huangqiang Zouban (荒腔走板) (dall’inizio alla fine, ripetutamente a distanza di intervalli di tempo irregolari).

Nessun commento: