lunedì 18 aprile 2011

Il cinematografo cinese

Jiang Wen, Zhang Yang, Li Yu. In semplice ordine cronologico.
Non ho mai pensato di avere le giuste competenze per spiegare il cinema cinese, solo che in un certo senso mi scuote.

Jiang Wen, uomo, è uno che ti sa far ridere e colpire insieme, nella stessa storia, nelle stesse azioni. È uno che noi stranieri probabilmente non capiremo mai fino in fondo per quanto è cinese, ma quello che arriva basta a rendere soddisfatti tutti gli spettatori, su diversi livelli. Stavolta mi ha raccontato una storia d’amore durante la Rivoluzione culturale, e tanto mi basta. Una storia senza fine e che forse non è mai esistita, ma solo immaginata. Storie di ragazzi di strada e di violenza, di grassi spiriti di camerata e buoni sentimenti. Invidie e gelosie. Quanto di buono e inevitabilmente cattivo c’è nell’essere giovani. Ho guardato al film come stessi guardando al passato e come potessi riviverlo. Quelle stesse bontà e cattiverie probabilmente non svaniscono nella crescita, ma mi viene da pensare che l’esperienza aiuta l’uomo ad accettare e coesistere coi suoi eccessi sentimentali e le sue estensioni più misere. Poi si può dire quel che si vuole, che un protagonista non ricordi il finale delle sue storie o le sue storie stesse perché il governo vuole privare un popolo della sua memoria. Magari è così, in fondo Jiang Wen è quello dei diversi livelli di accessibilità. Ma il mio punto non sarà quello, il mio punto sarà godere delle sfumature: di una tragedia agli occhi della storia che è stata gioia fanciullesca e adolescenziale per individui, nello stesso spazio e negli stessi giorni. Per poi tornare a essere dolore, sempre individuale, o dimenticanza, confusione. Come dire il dolore restituito alla gioia che però non sarà mai compiuta e forse, addirittura, era solo immaginata come un sogno di bambino nelle giotnate di sole splendente.

Saranno trent’anni dopo, forse. Dopo la negazione del maoismo, dopo che i buoni sarebbero diventati cattivi, i cattivi sarebbero stati riabilitati e la memoria collettiva sarebbe stata riscritta di nuovo. Dopo che la Cina liberò se stessa per tornare a cadere sui propri fantasmi. Chissà se è solo una faccia di un trauma collettivo. Chissà se è la frustrazione di un ideale privato in una società resa nuovamente conforme. Chissà se è solo un esempio, che potrebbe trovarsi ovunque e in ogni tempo, di un individuo che si trova a vivere in una società che non è sua. Zhang Yang, uomo, ama parlare di famiglia, demarcando complessità e sfumature nei rapporti all’interno del nucleo familiare ristretto. Ma stavolta sembra anche avere voluto raccontare lo spirito di una fetta di epoca cinese degli anni ’90. Quella Cina urbana che negli anni ’80 se l’era spassata nella sua adolescenza liberale e negli anni ’90 si era messa al lavoro, ognuno con il suo business, piccolo o grande che fosse. C’è chi non ce l’ha fatta e si è ribaltato su se stesso, seduto su un parco rimediato e costretto tra soprelevate e anelli. Senza riconoscere più se stesso né i familiari, senza parlare e perdendo direzioni. Una storia del tentativo di riscattarsi (dalla tossicodipendenza o dall’inerzia e dall’aggressività cui costringe la società?) in una famiglia normale, umile cinese. Fa male vedere due genitori come tanti subire la cattiveria di un figlio. Ridotti all’impotenza perché le autorità sono sovvertite e il figlio sa che può continuare a infierire perché i suoi genitori non lo abbandoneranno mai. Fa ancora più male vedere degli attori recitare loro stessi, costretti a rivivere un dramma atto dopo atto su un palco di teatro. Se almeno fosse stata una reale esternazione. Sembrava lasciare speranze, Jia Hongsheng alla fine del film, nella ripresa di una vita semplice. Ma la riproduzione della realtà attraverso una camera finisce nel 2001 e l’attore che recita se stesso si suicida nel 2010, credo si sia gettato faccia al vento fino allo schianto. Sarà impossibile che ci racconti o che costringa la sua famiglia a raccontarci la sua morte stavolta. Sembrava Ieri.

Oggi. Questa volta è un incidente stradale. E una donna, una madre che lo rivive giorno dopo giorno nel suo garage, dentro le macerie di una vettura. Si può scegliere di morire così, giorno dopo giorno, per quanto ci si sente abbandonati. In casa sono arrivati tre ragazzi, con il bene e il male della gioventù. Sanno ferire. Sanno perdersi nelle botte per difendere l’orgoglio e gonfiare il petto. Sanno amare gli eccessi. E sanno farsi amare, sì sanno amare e farsi amare con quella convinzione ancora non intaccata dalla vita. Nei giorni in cui i compromessi puoi solo immaginarteli e dirti che saprai accettarli quando sarà, o magari proprio non ci pensi. Li Yu, donna, ama la fotografia attenta al dettaglio, con certi effetti. Inquadrature, montaggi che sanno trasmettere molto. E poi ci sono squarci di luce che non è solo abbaglio ma vita espressa. Le urla sui tetti dei treni all’uscita dal tunnel travolti dalla luce come a soffocarti. Uscire dal buio e alzare le braccia, chi attraverso la condivisione di un’amicizia, chi ammettendo di avere qualcuno ancora affianco. Chi prendendo coscienza della morte che si aggira fuori casa, a pochi chilometri da casa: erano vere le immagini del terremoto di Wenquan, immagini reali e soprattutto fresche, con l’odore della contemporaneità ancora addosso. Distruzione e morte che senti sulla pelle, era solo il 2008. E chi è vivo può solo rendere giustizia a chi vivo non è più onorando i giorni a rimanere. Andava tutto liscio, ma anche qui c’è un salto nel vuoto. Forse non è neanche la cosa più importante, in fondo era solo una donna che voleva la liberazione e quale momento migliore per farlo se non quando hai saputo dimostrarti di potere essere ancora viva, se solo non fosse per. Questa volta non so perché ma è stato un salto nella pace, in fondo intorno tutto era verde e saltare dalla montagna del Buddha della compassione non è come buttarsi giù da un palazzo di una metropoli.

Film del mese:
Giornate di sole splendente, regia di Jiang Wen, uomo (1994).
Ieri, regia di Zhang Yang, uomo (2001).
Il monte del Buddha della compassione, regia di Li Yu, donna (2011).

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