sabato 1 settembre 2012

Montréal

L'età della transizione - VIII tappa



Aurora. Boreale, di ghiacci sciolti al calore del sole città che sorge. Sapiente. Di tendenza. Se stessa. Da McGill a Rue Milton e sempre più a Nord Est ospite di eleganze piene di vita. E quel muovere di musica cinema arte contaminate di etnie ai piedi del duemila, la normalità della lotta quotidiana per creare delle idee. Ne ho sentito solo il richiamo, ma ci giurerei. Studenti in marcia a braccia levate, ci giurerei che è vero e credevano ancora in un percorso alternativo. Grido d’amore a prima vista la coscienza di saperci stare in quella terra allo sbocco del Saint-Laurent, in una di quelle case tutte a punta e scale a coesistere con le nevi invernali e i risvegli estivi di Places des Arts.


Imbrunire. Sul bordo di un lago buddhismi di provincia americana fatti a forma di verde rosa giallo blu tonalità rigorosamente pastello legno apparenze e barbecue. Il sorriso giusto è quello a otto denti, nella Val David, e le macchine sono lunghe molto lunghe, o alte molto alte. Sarà davvero quiete la loro? Visti da dentro non mi viene da odiarli. No, davvero. Non l’avrei mai detto.


L’indomani, sole a mezzodì. È la capitale, è normale che risplenda. Di un riflesso ripulito della realtà e per questo ancor più appariscente. Cinta di mura da cavalcare. Lo Château Frontenac, semplicemente il centro monumentale, che non puoi fare a meno di averlo davanti o a sinistra o a destra della vista. Musici e artisti di strada, puoi guardare al fiume come fossi nel Settecento Ottocento mitteleuropeo. Discesa roca nella città bassa, fino al Petit-Champlain, moto di genti giunte da ogni angolo della terra ad affollare botteghe e bistrôt in spazi angusti. Sono solo di passaggio, naturale, non so stare in mezzo a tutto questo bagliore rimesso a nuovo.


Vespro attesa alba nuovo giorno consumato e ancora nuovo giorno. Vorrei che non finisse più. Vorrei fermarmi. La pioggia inonda la mulattiera tra due costoni, mi fermo arranco riprendo alla cerca del numero 12, Montée di non so cosa. Busso alle porte sento respiri tra le fessure delle assi e dei legni nessuno apre potrei crepare qui fuori. L’ultimo sforzo, quello che viene prima di un materasso a dirti che anche tu puoi farcela prima o poi. L’alba di un giorno nuovo, con sole a dare luce ai due crinali e in mezzo il fiume sono già in paradiso e sto sognando. Salgo fin su alle cime guardo all’altezza del mondo passo la mano su tronchi d’acero pini e pioppi su muschi e terra bagnata. Nuoto in acque gelate, le navigo nella quiete e nelle discese rapide. Niente è eccezionale qui, è bellezza ordinaria e per questo vorrei starci sempre un giorno in più e scoprire a ogni aurora che nell’ordinario esiste la bellezza se si è in grado di vederla.


Crepuscolo. Sporco. Altezze di palazzi soffocanti. Strade strette. Rumori e cantieri ovunque macchinari accesi, metropoli odio le metropoli. Qui si è persa la diversità, le persone parlano una lingua sola ma hanno lineamenti diversi, sono tutti di qui, del posto ma tradiscono origini lontane lontanissime, storie da raccontare che forse non conoscono neppure più. Mi chiedo se è questa la direzione dell’uomo, la perdita delle distinzioni la nascita di un essere nuovo che non è più quello di prima che non ha le sembianze dei nuovi venuti e che non ha più confini. Chissà, se saranno tutti nostri simili forse la smetteremo di combattere, ma a quale prezzo, quello della perdita della diversità. Ne ha fatta di strada il vecchio Fort York, dalle sua mura dimenticate la si può vedere tutta a chiare linee. Toronto. C’è chi dice che nella lingua dei nativi significhi ‘crocevia’. Altri –sembra con maggior cognizione di causa- sostengono che significhi ‘nassa’. Tutto torna.
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