mercoledì 11 gennaio 2012

Nuvole, zio

Perché quella foto lassù non ci può stare, pensavo. In quella fila di lapidi a schiera su più piani.

Perché disarmonica perché quel dolore disarmonico
incrinatura stonata
tra noi famiglia di buoni valori e sentimenti
aspettative semplici
secolari quanto l’uomo.

Due mesi fa, di già.
Siamo cresiuti protetti, con vestiti puliti e giocattoli nuovi. Con padri e madri, disabituati al significato insito, minimale, essenziale della sofferenza.
Ed ero là, non potevo piangere perché non avrebbe mai accettato di vederci sedere di fianco al suo cadavere inanime così a lungo. “Chissà quante risate si sta facendo lassù”, dice la figlia di un padre per scacciare la paura dell’assenza o per dare un atto di fiducia nella vita. O di fede nel Dio.
Avrei dovuto consolare, forse, ma non potevo neanche parlare, non ho da dire mai nulla davanti alla morte. Ogni conforto è un inganno, ogni frase un appiglio per distogliere la mente dall’unica cosa che desidero di fronte alla morte: il ricordo.
Sono di nuovo due mesi che non fumo, un impegno alla memoria. Tra me e me, da me a me passando per un’ascensione in cerca di destinazione senza arrivare.
Un malessere diffidato e sminuito, controlli, ricovero. Un ospedale che sembra un centro commerciale. Le dimissioni, con bombole d’ossigeno ma con una voglia nuova, priva di paura. Sembravano rinascere insieme, tutti e tre: padre, madre e figlia. Insieme mi sembravano una prova in grado di smentire la credenza secondo cui la famiglia altro non sia che un retaggio cristiano. Di per sé, con il loro solo essere. Lievi peggioramenti, un giorno rimandato e atteso che doveva essere festa e si tramuta nell’esibizione pubblica di un dramma. Sguardi compassionevoli, allarmismi in giacca e cravatta, a mezza bocca sul bordo di una piscina. Da lì in poi neanche due settimane, un nuovo ricovero, la telefonata, due giorni di stazionamento, l’inevitabile.
Mi piaceva immaginarlo, pensarlo senza distogliermi mentre ero in sala di attesa. Avrei evitato l’ultima visita in vita, mi veniva da urlare di darmi indietro mio zio, ma era lì davanti ai miei occhi, era il suo corpo che stava cambiando. Dov’era l’ossigeno, pensavo che il respiro fosse sintomo di vita ma non è così, anche chi non riesce più a respirare ha dentro voglia di vivere in sovrabbondanza.
Che ci fanno questi uomini davanti a una chiesa, che ci fa questo prete davanti a un altare a parlare di uno sconosciuto che amava, odiava a prescindere da Dio e quando poteva manifestava miscredenza. Parole a suscitare indifferenza. Aveva paura della morte ed è morto, che ci fa la sua foto fra tutte quelle degli altri al cimitero.
Perché quella foto lassù non ci può stare, penso. Perché quando sposterò la scala metallica, salirò sui gradini, poserò i miei occhi su quella foto, perché –penserò- che ci sta a fare lì il mio secondo padre.

Canzoni del mese:
Amor Fou, Filemone e Bauci (2010)
Neil Young, Heart of Gold (1971)

1 commento:

daniela ha detto...

non servono parole di conforto.é l incontro (casuale?) di un fratello e una sorella in un parcheggio dell ospedale.LEI,al sole con il suo triste pensiero,che apre gli occhi e vede LUI..che prima di salire la abbraccia.era l unico conforto di cui LEI aveva bisogno.