domenica 11 novembre 2012

Micah P. Hinson

Metropolitana linea B, sulla banchina. Ad aspettare, un treno non so per dove, non ricordo in quale stazione.
Da dietro la voce: “buongiorno”.
Ne era passato di tempo. Lei di ritorno da una delle sue tournée, io nella mia vita fatta di stasi e regolarità, saranno i ritmi di famiglia e le docce del martedìpiùvenerdì. Oggi, a trent’anni e poco più non mi succede più di condividere anima e sentimento come quando di anni ne avevo venti o giù di lì. Non so perché. Allora passavamo i sabati su un letto a cambiare cd e a parlare di incontri e sensazioni, e le parole non erano prosciugate come oggi.
Metropolitana linea B, sulla banchina. Lei mi dice “buongiorno” con l’aria piena di chi viene dal mondo dei vivi, così decido di cambiare programma e accompagnarla a casa, quella di una volta. Prima o dopo un pranzo cinese, tira fuori la sorpresa. Dal lettore esce una voce indolente, che viene non so se dalla trachea o dallo stomaco. Comunque da dentro, come ciò che canta. Stona, dissona e ritorna a suonare calda. Voce e chitarra, melodia che richiama where is my mind? ma con un’anima diversa. Micah P. Hinson canta the possibilities. Da allora saranno passati non so quanti anni, forse cinque o sei, forse di più. Ho accumulato un paio di album e aspettato congiunzioni astrali e incastri giusti per vederlo dal vivo. 5 novembre 2012, circolo degli artisti. Attacca con take off that dress for me, una delle mie preferite, e capisco che quella è proprio la sua voce, una delle migliori voci maschili dell’ultimo decennio. Ma da sola non potrebbe fare niente, se non ci fosse il suo vissuto da sviscerare, da raccontare con parole e con chitarra, con quel modo di suonare e comunicare.
C’è stato sotto, con droghe o con alcool, non ricordo più. Racconta senza freni di sé, d’altronde è un artista. Ha movenze strane, eccentriche; non è un nerd ma a tratti mi fa venire in mente un personaggio di Nathan Never, il mio fumetto preferito di gioventù. A volte assomiglia a Sigmund, nonostante apparentemente il contrasto sia evidente. Parla molto, di sé dell’ispirazione dei pezzi che canta. È di quegli americani alternativi che dicono fuck ogni tre parole, cosa che dovrebbe far riflettere sugli alternativi americani. Il mio inglese non mi permette di andare lontano, ma credo non stimi molto Elvis (“Quale cazzo di ré del rock and roll, come cazzo può essere un ré uno che non scrive le canzoni che canta?”). Si è scordato due, tre volte la seconda strofa di Suzanne (“Fottuti canadesi”), a tratti nel suo non poter soffrire niente e nessuno sembrava triste. Ha ringraziato a più riprese il pubblico romano per avere ascoltato la sua esibizione senza parlare troppo e sembrava sincero. Sul palco, a parte lui, c’era un tavolino. Sopra un succo di frutta, la tracklist, una bottiglietta di birra o acqua, delle pastiglie che di tanto in tanto ingeriva. Dall’altra parte della sera un corvo finto o impagliato.
Mi è sembrato abbastanza indecifrabile, ma forse ho conosciuto troppo pochi americani nella mia vita per farmene un’idea. Però un legame tra come si comportava sul palco e quello che cantava c’era. Ispirazione cantautoriale, sa suonare anche bene, violento di una passione sofferta sulla chitarra e sul suo approccio alla musica. Non è un problema se ogni tanto il finger picking fa cilecca, fa parte di ciò che comunica. Così per la voce: calda, profonda, viscerale e un attimo dopo urlata, steccata, lacerata.
Bello davvero vederlo dal vivo, toccante fino alle ossa.

Ci abbracciavamo
Senza riuscire a vedere
Il futuro che ci pendeva davanti
Il passato ora è troppo lontano per essere visto
Ma non guardavamo e non facevamo caso
C’era qualcosa rimasto tra noi, allora,
Ma ora immagino che semplicemente non sia più lì

Quando ci baciavamo, sai
non potevamo vedere, sai
Il futuro che ci pendeva davanti
Il passato ora è troppo lontano per essere visto
Ma non guardavi e io non facevo caso
C’era qualcosa rimasto tra noi, allora,
Ma ora immagino che semplicemente non sia più lì


Micah P. Hinson, When We Embrace, in Micah P. Hinson and the Red Empire Orchestra (2008).

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